Il rapporto che intercorre tra le tecnologie del visibile mediali e belliche e la loro reciproca evoluzione è molto stringente, tanto da poter rintracciare un’origine militare delle tecnologie mediali, in un ritmo di risposte strategiche crescenti. Dalla fotografia militare della guerra di Secessione, alla foto-cinematografia aerea per la ricognizione in occasione del primo conflitto mondiale, fino alla visione elettronica della guerra del Golfo, per arrivare, all’alba del nuovo millennio, in era digitale, alla visione termica, dei satelliti spia, dei droni, delle smart bomb e dei dispositivi di sorveglianza. Non c’è guerra senza rappresentazione e il cinema, oltre a documentare, raccontare e mostrare il conflitto, è strumento di percezione e di distruzione nel momento in cui le tecnologie mediali sono state assorbite e utilizzate dall’industria bellica. Tuttavia, se da una parte la guerra tecnologica e cibernetica ha portato ad un’ipertrofia e autoregolazione, segnando una dimensione virtuale del conflitto, la svolta connettiva e l’uso personale della camera, indirizzandosi verso un aspetto comunicativo e sensoriale dell’esperienza, riconfigurano ulteriormente la memorialistica di guerra e la forma testimoniale. Questo aspetto è evidente negli ultimissimi anni, con l’invasione russa in Ucraina e l’inasprirsi del conflitto in Medio Oriente.
Il libro di Alessia Cervini, L’invenzione del cinema. Rappresentazione e Grande Guerra, risulta estremamente prezioso e originale dal momento che riflette su come il cinema, dalla sua nascita, nella sua forma poi più propriamente strutturata di racconto, il lungometraggio finzionale, si sia dovuto fin da subito porre ontologicamente il problema di come rappresentare l’irrappresentabile, ovvero l’orrore della Prima guerra mondiale, «inventare forme della visione in grado di conservare la distanza che immancabilmente sussiste fra i fatti storici e la verità e divenire, allo stesso tempo, traccia ostinata dell’impossibile, dell’inimmaginabile» (Cervini 2024, p. 9). Il primo conflitto mondiale può venir visto come un paradigma estetico rappresentativo che mette fin da subito il cinema a riflettere sulle sue potenzialità linguistiche ed espressive. Il cinema americano del primo dopo guerra utilizza la formula narrativa per rielaborare il trauma storico e metabolizzare l’orrore, «alla brutalità del vero, si risponde con la potenza consolatoria e redentrice della finzione che è sempre appartenuta alla tragedia» (ivi, p. 21). Un esempio preso in analisi da Cervini è Cuori del mondo (Hearts of the World, 1918) di Griffith, in cui si ricorre ad un doppio plot, d’amore e di guerra. Dall’altra parte, invece, le avanguardie cinematografiche, fiorite negli anni Venti, possono essere viste come una risposta diametralmente opposta, «la più radicale conferma dell’indisponibilità della guerra a trasformarsi in materiale utile alla costruzione di un racconto (per immagini)». Il libro si sofferma ampiamente sul cinema post-bellico sovietico, ad esempio, dove la Prima guerra mondiale, seppur tenuta spesso fuori campo, viene vista come un momento fondamentale e determinante che precede e che condiziona inevitabilmente la nascita dell’Unione Sovietica con la rivoluzione. L’analisi include anche film contemporanei che ritornano a riflettere sulla nuova logica della percezione inaugurata dalla Grande Guerra, come il cinema possa testimoniare una carneficina di massa un secolo dopo la fine del conflitto. Tra i casi presi in esame troviamo 1917 (2019) di Sam Mendes e They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani (2018) di Peter Jackson, usciti a ridosso del centenario della guerra. Entrambi i film sembrano proporre «una radicale messa in questione delle immagini di cui diversamente fanno uso». Il primo utilizza il piano sequenza per «documentare la guerra nel suo farsi», attraverso uno stile iperrealista che «evoca, dunque, il tramonto di ogni rappresentazione (cinematografica) possibile» (ivi, p. 39), mentre il secondo «lavora a una evidente, quanto dichiarata falsificazione dell’immagine documentaria» (ivi, p. 29), l’immagine d’archivio va incontro ad un processo di ri-semantizzazione, riarticolata in un flusso narrativo, colorata e innervata di computer grafica, attualizzata secondo una percezione contemporanea che possa far risaltare la drammaticità del conflitto.
Nonostante il soldato della Grande Guerra affetto da shell shock raffiguri la prima figura iconica di sopravvissuto, l’Olocausto fu la base di partenza attorno al quale si inaugurarono gli studi sul trauma, a partire dagli anni Novanta, che, in linea con la critica postmoderna, attuano una ricodifica del rapporto tra soggettività e storia, facendo emergere le contraddizioni e le problematicità della testimonianza, tra narrazione parziale ed esperienza personale, dove la riflessione sulla soggettività risulta essere indissolubilmente legata a quella sulle forme di rappresentazione. Secondo Cathy Caruth, ad esempio, l’impossibilità della rappresentazione dell’esperienza traumatica non è solamente di natura soggettiva, da riscontrarsi nella fallacia della memoria, nelle dislocazioni, rimozioni e alterazioni, ma anche oggettiva, a livello storico-universale, nella mancanza di strumenti e significati di rappresentazione. Il cinema inevitabilmente, partendo dal trauma storico, immagina ed elabora modalità di espressione e di figurazione che possano riflettere su questa impossibilità di rappresentazione, attraverso una forma non realistica e antimimetica, determinate e specifiche strategie estetiche e formali che provvedono alla frammentazione e alla decostruzione del tessuto testuale e stilistico del film.
A partire dalla considerazione dei limiti della rappresentabilità dell’Olocausto, Cervini si interroga sulla forma di rappresentazione impiegata ne Il figlio di Saul (Saul fia, 2016) di László Nemes, in cui le strettissime inquadrature che seguono il protagonista nel suo muoversi all’interno del campo di concentramento lasciano lo sfondo sfocato e indistinto, inafferrabile, impedendo allo spettatore di capire cosa stia realmente accadendo. Analogamente, il film successivo del regista ungherese, Tramonto (2018), «porta avanti una riflessione sul potere testimoniale dell’immagine, in sé stessa e oltre sé stessa”. In questo caso il film è ambientato invece durante la Prima guerra mondiale, «un’età in cui la storia e la sua violenza sfuggono definitivamente alla possibilità della testimonianza, dal momento in cui i pochi che tornano dal fronte sono letteralmente “senza parole» (ivi, p. 107). Considerandoli come un dittico, le due opere tracciano inevitabilmente una linea di collegamento tra la carneficina messa in atto nelle trincee e lo sterminio nazista.
Nel finale, il libro si interroga su come il cinema contemporaneo, che fin dalla sua nascita ha sempre cercato di «trovare soluzioni diverse alla medesima impossibilità» (ivi, p. 86), ovvero quella di rappresentare l’orrore, l’irrappresentabile, un discorso teorico sollevato dalla Prima guerra mondiale e mai davvero esaurito, possa ristabilire la sua funzione testimoniale che negli ultimi anni pare minata alle fondamenta. Certamente le handycam digitali prima e gli smartphone poi hanno dato vita ad un amateurized media universe che ha riconfigurato radicalmente la forma testimoniale. Oltre allo sviluppo dei dispositivi audiovisivi maneggevoli e miniaturizzati, ad aver cambiato completamente la natura della testimonianza è l’aspetto aggregativo consentito dalla rete e soprattutto dai social network. È chiaro come oggi il problema sia quello di organizzare e sistemare le immagini di morte e distruzione dei conflitti che proliferando vanno a saturare il mediascape contemporaneo dando vita ad un immaginario che rischia spesso di alimentarsi attraverso aspetti ricorrenti che si trasformano in stereotipi andando, conseguentemente, ad annullare la complessità delle situazioni affrontate. Come Austerlitz (2016) di Sergei Loznitsa, che viene preso in esame nel libro, «il cinema deve funzionare come strumento disvelatore, in grado di smontare, mostrandola attraverso altre immagini, la messa in scena spettrale di cui, diversamente, non saremmo che spettatori inconsapevoli, e in quel caso davvero inermi» (ivi, p. 130), riattivare gli effetti passivi e anestetizzanti dovuti alla trasformazione mediatica della guerra. Il cinema può assumere quindi il compito di ri-autenticare le immagini del conflitto, facendo in modo che queste ri-acquisiscano un valore traumatico e testimoniale, spesso invece relegate ad avere un effetto anestetizzante, rendendo lo spettacolo del dolore qualcosa di addomesticato, che non portino esclusivamente a sentimentalismo, compassione o shock, ma ad una riflessione critica.
Riferimenti bibliografici
C. Caruth, Trauma. Exploration in Memory, John Hopkins University Press, Baltimore-London, John Hopkins University Press 1995.
Alessia Cervini, L’invenzione del cinema. Rappresentazione e Grande Guerra, Marsilio, Venezia 2024.