«È definita una zoonosi» – un inquietante termine che deriva dalla composizione di ζῷον, animale, e νόσος, malattia – «una infezione o una malattia che è trasmissibile dagli animali (vertebrati) agli esseri umani» (Lorenzo-Morales 2012). Si tratta di una definizione inquietante almeno per un doppio motivo: perché collega gli animali, in particolare quelli che mangiamo e amiamo, i vertebrati, al pericolo e alle malattie; e perché implicitamente separa gli esseri umani dagli animali. In effetti viene da chiedersi se questa sia una definizione biologica o biopolitica, cioè se il concetto di “zoonosi” riguardi la vita oppure il governo amministrativo e poliziesco della vita. Homo sapiens è sapiens, ma appartiene al genere Homo, che a sua volta rientra nella famiglia degli Hominidae, che comprende oltre agli esseri umani anche le cosiddette grandi scimmie (gorilla, scimpanzé e oranghi). Da un punto di vista zoologico un essere umano è un animale quanto qualunque altro animale. Se questo è vero, ed è incontestabilmente vero, perché un’infezione che passa da un pipistrello ad un essere umano dovrebbe essere così diversa da quella che passa da un pipistrello ad un altro animale? Per non parlare di quelle che dagli umani passano agli animali (Zooanthroponosis; Messenger et al. 2014).
La definizione di zoonosi che abbiamo appena citato prosegue proponendo una prima ragione per dare conto dell’attuale “emergenza” zoonotica: «Uno dei fattori principali che contribuiscono all’emergenza di nuovi patogeni zoonotici nelle popolazioni umane è il crescente contatto fra umani e animali. Questo è dovuto sia all’estendersi dell’attività umana all’interno di aree ancora incontaminate, sia al movimento di animali selvatici verso le zone antropizzate». L’aspetto curioso di questa “spiegazione” è che sembra presupporre che il contatto fra animali e umani sia in qualche misura eccezionale e recente, come se in un ipotetico “regime naturale” gli animali se ne stessero al loro posto con gli altri animali, e gli umani invece dovessero stare soltanto o almeno prevalentemente fra umani.
È questo l’impensato biopolitico della cosiddetta “emergenza” per il Coronavirus: in un mondo “normale” gli animali fanno gli animali, cioè si fanno allevare, mangiare e coccolare (questo riguarda il particolare sottogruppo dei cosiddetti “animali da compagnia”) senza mischiarsi con noialtri umani. Che ognuno rimanga ben chiuso nella sua bolla biopolitica, e tutti saremo contenti e sicuri. Ma la vita è sporca e contaminata (Coccia 2018), non sa che farsene delle distinzioni amministrative e sanitarie, per non parlare di quelle politiche e poliziesche.
Il Coronavirus denominato 2019-nCoV all’origine dell’attuale pandemia, infatti, è probabilmente l’effetto di un cosiddetto “salto di specie” (spillover; cfr. Quammen 2014) dai pipistrelli (Zhou et al. 2020), normalmente portatori sani di Coronavirus, agli umani. Un fenomeno del genere non è affatto straordinario, al contrario, è assolutamente “normale”. Secondo stime recenti due terzi delle specie di virus in grado di infettare gli esseri umani colpiscono anche altri animali, in particolare mammiferi e uccelli (Woolhouse et al. 2012).
All’inizio ci sono i virus, poi gli animali e infine gli esseri umani. Homo sapiens è sempre al vertice della natura, anche se almeno in questo schema (e rispettando il politicamente corretto), al vertice del vertice umano ci sono due donne (per di più apparentemente caucasiche; le immaginiamo bionde). Non si può non sottolineare che l’artifizio grafico della freccia che dai virus arriva alle donne riprende (che ne siano o no consapevoli gli autori della ricerca) il pregiudizio biopolitico della natura come fonte di pericolo e di infezione per gli esseri umani; all’interno di questo pregiudizio ne è annidato un altro, quello delle donne come le più esposte al pericolo dell’infezione “bestiale”.
È difficile non pensare alla scena fondamentale del film King Kong (1933), quella in cui Ann Darrow (interpretata dall’attrice Fay Wray), viene afferrata dalla mano gigantesca della bestia (e siccome com’è noto la donna è una creatura ancora non del tutto razionale, quella stretta è sì mostruosa ma in modo inconfessabile anche desiderata, come mostrano gli occhi sognanti della vittima). Un pregiudizio affatto esplicito che si mostra nel fatto che il punto di partenza delle zoonosi è concentrato in Africa, cioè nel continente “selvaggio” per definizione. Non sarà certo per caso che si tratti dello stesso continente da cui provengono i migranti che il sovranismo globale vuole respingere indietro, secondo la massima che ogni volta che si parla di animali e di infezioni si sta anche, se non soprattutto, parlando di esseri umani (Cimatti 2013). In fondo il nome 2019-nCoV non è che l’ennesimo sinonimo del politically correct “migrante” o del poliziesco “clandestino”: «Si può dire», osserva a questo riguardo Roberto Esposito, «che la rottura dei confini tra ciò che è biologico e ciò che è politico caratterizzi sempre più il nostro tempo» (Esposito 2018, p. 74).
L’infezione, allora, non è lo stato d’eccezione della vita, al contrario, la vita non è altro che un continuo e inarrestabile processo infettivo. In effetti la posta in gioco delle narrazioni apocalittiche delle infezioni globali è costituita proprio dalla nozione biopolitica di “individuo”. Da un punto di vista strettamente biologico, infatti, non esiste qualcosa come un individuo, cioè come un’entità biologicamente “pura” e autosufficiente dal momento che ogni forma di vita è sempre in qualche misura “infettata” da altri organismi. Si pensi, ad esempio, al ruolo decisivo svolto dai batteri all’interno degli eucarioti, sia da un punto di vista filogenetico (secondo l’ipotesi più accreditata i mitocondri non sono altro che batteri inglobati all’interno dell’involucro cellulare) che nella vita quotidiana di ogni mammifero; senza infezione batterica intestinale non saremmo capaci nemmeno di digerire il cibo ingerito (cfr. McFall-Ngai et al. 2015). Come scrive il biologo Scott Gilbert: «Non siamo mai stati individuali» (Gilbert et al. 2012).
A questo proposito nel suo ultimo e visionario libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Donna Haraway riprende e sviluppa il concetto di “olobionte” originariamente proposto dalla biologa Lynn Margulis (1991), un concetto con cui indicare:
Gli assemblaggi simbiotici, su qualsiasi scala spaziale o temporale, che assomigliano più a nodi di relazioni intra-attive diversificate all’interno di sistemi dinamici complessi piuttosto che a entità di una biologia composta da unità preesistenti legate tra loro (geni, cellule, organismi, ecc.), in interazioni che si possono concepire solo in forma di competizione o di cooperazione (Haraway 2019, p. 90).
L’idea di Haraway è che l’olobionte non è dato dalla somma di elementi preesistenti e autosufficienti, al contrario, quella di «ospite-simbionte è una locuzione strana per quel che succede in realtà: a qualunque grandezza, tutti i partner che costituiscono gli olobionti sono simbionti l’uno dell’altro» (ivi, p. 99). L’olobionte, in fondo, è la disattivazione della nozione biopolitica di infezione, che da stato d’eccezione diventa condizione permanente. Ma se la vita è infezione, allora non vale più la coppia biopolitica puro/infetto.
Si comprende così di che si sta parlando, quando si parla di infezione globale e di Coronavirus, anche perché non bisognerebbe dimenticare che la “normale” mortalità dell’influenza invernale è compresa fra 250.000 e mezzo milione di persone l’anno (Iuliano et al. 2018). Mentre al momento in cui scriviamo queste note in tutto il pianeta risulterebbero morte 305 persone a causa del virus 2019-nCoV. La posta in gioco del Coronavirus è quella dello scontro tutto biopolitico fra purezza e immunità da una parte, e un mondo “infetto” dall’altro, cioè un mondo non centrato sulla nozione biopolitica di individuo. È questo il mondo che Haraway definisce Chthulucene (dal nome del ragno californiano Pimoa Cthulu).
Lo Chthulucene, a differenza dell’Antropocene e del Capitalocene, è fatto di storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari, tempi in cui il mondo non è finito e il cielo non è ancora crollato. Siamo la posta in gioco gli uni degli altri. A differenza del dramma che domina il discorso dell’Antropocene e del Capitalocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori rilevanti; gli altri esseri non sono mere comparse che si limitano a reagire. L’ordine viene rielaborato, si disfa una maglia per crearne un’altra: gli esseri umani sono della Terra e con la Terra, e i poteri biotici e abiotici di questa Terra sono la trama principale del racconto (Haraway 2019, p. 85).
In realtà il concetto di “infezione”, proprio per il suo impensato biopolitico, è inadatto a dare conto della sfida che il caso del Coronavirus pone al nostro tempo: 2019-nCoV ci chiede di immaginare un mondo in cui il passaggio da una specie all’altra, da un luogo all’altro, da un’identità all’altra non rappresenti più l’eccezione da confinare attraverso pratiche di immunizzazione e sterilizzazione (Esposito 2002). Si tratta al contrario di vedere il caso del Coronavirus come l’emblema di un mondo completamente relazionale popolato da una molteplicità irriducibile di agentività, fra cui quelle umane non sono che una frazione sempre minore.
Un mondo del genere sfugge definitivamente dal controllo umano (che cos’altro è l’Antropocene se non questa fuga del mondo dall’umano?). In questo senso il concetto più utile per pensare questa situazione è quello di “involuzione” (Hustak, Myers 2015), discusso da Deleuze e Guattari in Mille piani, «questa forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei, a condizione, soprattutto, che non si confonda l’involuzione con una regressione. L’involuzione è creatrice. Regredire, è andare verso il meno differenziato. Ma involvere è formare un blocco che fila secondo la propria linea» (Deleuze, Guattari 2017, p. 339). Appunto, “secondo la propria linea”, non secondo quella nostra.
Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013.
E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, Salerno-Napoli 2017.
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
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S. Gilbert, “A Symbiotic View of Life: We Have Never Been Individuals”, The Quarterly Review of Biology, 87(4), et al. 2012, pp. 325-341.
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Editions, Roma 2019.
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J. Lorenzo-Morales, Zoonosis, InTech, Rijeka, Croatia 2012.
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M. McFall-Ngai, “Animals in a bacterial world, a new imperative for the life sciences”, PNAS, 110(9), et al. 2013, pp. 3229–3236.
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