Mentre le immagini volteggianti di Limonov di Kirill Serebrennikov scorrono sullo schermo, gradualmente una consapevolezza si fa strada nello spettatore: assistendo al film non ci troviamo di fronte ad un biopic sulla vita di Eduard Limonov. Cosa stiamo vedendo, allora? Per rispondere a questa domanda occorre prima porne un’altra, determinante: Chi era Eduard Limonov? un poeta, romanziere, rivoluzionario, loser errante nei bassifondi di New York, domestico negli USA, esiliato e celebrato come poeta maledetto in Francia, militante politico nazionalista, galeotto nelle carceri russe, soldato nei Balcani?
Eduard ha avuto molte vite o meglio molte esistenze, molte rappresentazioni di sé, auto-scritture. I suoi nomi fluttuano nel tempo: Eduard, Eddy, Edička, Eddie, Eduard Venjaminovič Savenko. Limonov ha molti nomi, ognuno dei quali diventerà un personaggio nei suoi romanzi, una tappa nel processo di metamorfosi continua che caratterizza la sua vita. Limonov è un corpo metamorfico che il film segue dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti, alla Francia e poi di nuovo in Russia. Ad ogni tappa, Ben Whishaw interpreta nel film una per una le esistenze di Limonov: si trasforma, muta aspetto, incarna di volta in volta un personaggio diverso.
Limonov non è un biopic, un film biografico – un genere o sottogenere alquanto di moda nel panorama cinematografico degli ultimi tempi – ma è qualcosa che ne svela, forse anche inconsapevolmente, la finzione. Sì, perché non c’è nulla di più finzionale della biografia, già di per sé, etimologicamente determinata da un atto affabulatorio. Raccontare la vita di qualcuno significa creare un personaggio e una storia, significa inventarli, ancora di più se il personaggio ha tante storie, cioè ha avuto tante esistenze. Ancor di più se questa persona ha scritto romanzi in prima persona, raccontando ogni fase della sua esistenza attraverso la parola, narrandosi, scrivendosi, cioè inventandosi. La finzione è dunque una menzogna? No, assolutamente. La finzione è la forma attraverso cui le storie possono esistere. La forma attraverso cui è possibile (ri)scrivere la propria e l’altrui vita. Ovviamente questo non accade sempre: un conto sono i film biografici che creano nuovi personaggi, nuovi sguardi, idee di cinema, allontanandosi dal mito della “fedeltà” all’esistenza “reale”; un conto sono i film che appiattiscono la complessità della vita in una sceneggiatura perfettamente coerente con le regole della narrazione neoclassica hollywwodiana.
Anche perché Eduard Limonov non è stato solo il creatore di quel coacervo di personaggi che ha poi interpretato nel tempo, è anche il protagonista del libro omonimo scritto da Emmanuel Carrère nel 2011. Libro da cui Serebrennikov ha tratto il film. Ed ecco allora il primo indizio che ci porta a vedere Limonov come qualcosa di diverso da un biopic. Il regista russo attinge non tanto ad una supposta reale esistenza del suo personaggio, quanto ad una scrittura, quella di Carrère, che già in origine aveva “costruito” i molteplici personaggi di Eduard. Primo scarto rispetto all’ingenua visione del biopic come racconto di un’esistenza.
Serebrennikov attinge al libro, alle sue immagini, allo sguardo affabulatorio, inventivo (e dichiaratamente finzionale) di Carrère. Lo scrittore francese, parlando del romanzo che ha reso famoso Limonov (Il poeta preferisce i grandi negri), che racconta l’esperienza del poeta russo nella New York degli anni settanta, evoca l’atmosfera di Taxi Driver di Scorsese. Nel film Eddie e Elena vagano entusiasti nelle strade della New York notturna del 1975. Osservano con sguardo da bambini le mille luci di New York, gli specchi su cui riflettersi; ne ascoltano i suoni, ne assaporano gli odori. Inebriati, non notano che sul marciapiede una ragazzina, con un cappello bianco, una camicia chiara a fiorellini rossi legata sul ventre e degli short rosa sta intrattenendo qualcuno che si trova all’interno di un’auto parcheggiata. Abbiamo già visto quella ragazzina, e proprio in un film uscito nello stesso anno in cui quella scena è ambientata.
Ed ecco allora il cortocircuito: Carrère pensa alla New York di Scorsese leggendo il libro di Limonov; Serebrennikov riprende il romanzo dello scrittore francese e riattiva il fantasma cinematografico evocato nel romanzo, materializzando letteralmente la Iris di Jodie Foster sui marciapiedi del set in cui ha girato la scena. La scrittura inventa, crea e riattiva fantasmi, crea e fa rinascere esistenze. Sandrine Bonnaire, che interpreta l’intervistatrice radiofonica in Francia, chiede a Limonov: “È vero che lei scrive solamente di un solo argomento: se stesso?”, “Ha fatto centro”, risponde Eduard. Posso scrivere solo di me stesso, ripete il personaggio nel film, quasi fosse un mantra. Ma in realtà, Eduard non è l’unico a scriversi, ad inventarsi come fucina di personaggi. Egli è più volte personaggio, diventa più volte scrittura. Con Carrère, con Serebrennikov, evocando Scorsese.
In questo senso, lo stile registico del film sembra accompagnare questo slittamento continuo di esistenza in esistenza, di scrittura in scrittura. Serebrennikov non lascia quasi mai ferma la macchina da presa, ma costantemente la muove accompagnando, circondando, muovendosi quasi in forma danzante vicino ai suoi personaggi, giocando con la fotografia, gli effetti di luce, i long take e i piani sequenza, così come il tappeto sonoro della musica dell’epoca che accompagna la narrazione delle tante vite del protagonista. È uno stile moderatamente barocco, quello del regista russo, sperimentato in forme sempre diverse nei suoi film: nell’uso del bianco e nero in Summer (2018), il film sull’icona del rock sovietico Viktor Tsoi; nella dimensione notturna di Pertrov’s Flu (2021), film sulle visioni febbricitanti di un gruppo di personaggi che non sanno più distinguere tra allucinazione e realtà; o ancora, negli spazi de La moglie di Tchaikovsky (2022), dove la compostezza dei gesti e la chiusura costante dei luoghi dove si muovono il celebre compositore e sua moglie contrasta con i movimenti di macchina fluidi e caratteristici del regista russo.
È come se la macchina da presa dichiarasse sin dall’inizio l’amore per i suoi personaggi: la fascinazione per le figure fuori dai margini, eccedenti, ribelli, visionarie, folli che animano il cinema del regista russo. Lo stile di Serebrennikov è infatti seducente, ammiccante, affascinato dall’estetica punk dei non allineati. Ciò che il regista russo mette a punto con Limonov è allora una operazione di riscrittura delle scritture precedenti che accompagnano il personaggio, o un’esistenza finzionale che si aggiunge alle altre, sotto forma appunto di ballata. La vita di Eduard scompare, svanisce di fronte alle tante scritture che l’hanno ripresa: la propria, quella di Emmanuel Carrère, quella di Sebrennikov stesso. Ma in quest’ultima domina una tonalità che potremmo definire “musicale”, composta dal costante tappeto sonoro (fatto di musica perlopiù occidentale degli anni Settanta e Ottanta), che immerge la Storia in un ovattato sottofondo invisibile. Limonov: The Ballad of Eddie è infatti il titolo originale del film: una ballata che in quanto tale si pone come forma di nuova scrittura del personaggio cangiante Eduard Limonov, forma volutamente sognante, irreale, fantasmatica; ma anche forma edulcorata, priva di complessità.
Tra le tante vite/esistenze/scritture di Limonov c’è quella politica: la fondazione del partito Nazionalbolscevico, la collaborazione con Aleksandr Dugin, la partecipazione come soldato volontario alla guerra dei Balcani nelle milizie serbe. Tutto questo non fa parte dell’operazione di riscrittura operata dal film. La ballata deve lasciar emergere la poesia del personaggio, non la sua complessità. Sebrennikov (ri)scrive dunque una figura che si pone come icona rock, come artista maledetto, come neo romantico che sogna di morire eroicamente, non nel proprio letto. Paradossale il fatto che Limonov morrà nel proprio letto, nel 2020, in piena pandemia, dimenticato da tutti, mentre le sue “riscritture” rimangono, galleggiando, nell’iconosfera contemporanea.
Limonov. Regia: Kirill Serebrennikov; sceneggiatura: Paweł Pawlikowski, Ben Hopkins, Kirill Serebrennikov; fotografia: Roman Vas’janov; montaggio: Juriij Karich; interpreti: Ben Whishaw, Corrado Invernizzi, Tomas Arana, Viktoriya Miroshnichenko; produzione:Wildside, Chapter 2, Pathé, Fremantle España, France 3 Cinéma; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia, Francia, Spagna; durata: 138’; anno: 2024.