A tutto schermo una parete di vetro coperta da residui di manifesti, brandelli di scritte, frammenti di immagini e di parole. Sembra un “decollage” di Rotella oppure qualcosa tra Rauschenberg e Pollock. Si indovinano in trasparenza iridescenze, zone scure, opacità, palazzi, angoli di strada nella notte di Causeway Bay a Hong Kong.
Anno di grazia 2019, vigilia della grande pandemia. E la notte è ancora tenera e dolce agli occhi esterrefatti di Tsai Ming-liang, che si sofferma a scrutare gli squarci notturni con lunghe inquadrature fisse, avvolte da un silenzio d’acquario. Dove però all’inizio i passanti camminano tranquillamente, anzi indugiano, aspettano alla fermata degli autobus, sotto un cavalcavia, mentre le auto scivolano. Tutto sembra assortamente in attesa. Il tempo si sospende e in questa sospensione si insinua una nostalgia e una inquietudine, come fosse un presagio.
Si ritorna ancora sui vetri dei brandelli scrostati. A stento leggiamo su quegli strappi di carta: “Rescue”, “Care”, “Situation”. Salvare, aver cura, situazione. Parole che non paiono casuali eppure sono lì a galleggiare come un ammonimento zen. Riconosciamo come un soffio amico, un sussurro cui ci ha abituati (sia nel filmare l’amore che nel filmare il dolore) il tocco di Tsai Ming-liang e il suo sostare nell’immagine, abitarla, centellinarla.
Eppure qui, per la prima volta, non ci sono i corpi cui ci ha abituati, anzitutto quello di Lee Kang-sheng. Come quei brandelli incollati sul vetro, ci sono solo tracce dell’umano, ombre che attraversano lo schermo, come scivolassero sotto le nostre palpebre. La brevità del film (circa venti minuti) non ne sminuisce la densità, l’intensità di sguardo, l’ipnotismo che si carica via via nelle immagini, le quali diventano sempre più visioni. Come squarci poetici di un flusso (si pensa a The Hollow Men di T.S. Eliot) o come estensioni pittoriche della macchina da presa (si pensa alle obliquità notturne di Hopper), il film a poco a poco ci trascina in una sorta di estasi distaccata, da cui, assumendo la condizione del “naufragio con spettatore”, contemplare un paesaggio urbano sempre più vuoto.
Non a caso il film rievoca l’amato (da Tsai) Antonioni fin nel titolo. Le strade e le fermate degli autobus, le pompe di benzina, i marciapiedi, ci appaiono a un certo punto deserti, e come carichi di una energia del vuoto. Finché la camera si mette in movimento nel lungo corridoio del cavalcavia, risucchiata dalle note di una vecchia canzone cinese anni quaranta, che dice: «La dolce notte scivola via. Odio quando ti vedo andar via. Perché la nostra gioia deve finire così presto? Perché ci dobbiamo separare, se ci siamo appena incontrati?».
Tutto pare andare nei cunicoli del tempo, sui ponti sospesi dello spazio, e dissolversi, e ritrovarsi, come nella nostalgia di qualcosa che non abbiamo ancora vissuto, e che pure ci pare insieme di ricordare e di dimenticare. È precisamente il sentimento di quel reale alterato, eppure così prossimo nella sua apparizione sullo schermo, che è proprio dei grandi evocatori per immagini. E Tsai possiede questa maliosa capacità di suscitare pregnanti visioni del nostro presente, e di invitarci a percorrerle.
Liang ye bu neng liu. Regia: Tsai Ming-liang; fotografia: Tsai Ming-liang; montaggio: Chang Jhong-yuan; produzione: Homegreen Films (Claude Wang); origine: Cina; durata: 19′; anno: 2021.