Sembra mostrarci proprio questo l’epistolario pubblicato dalla casa editrice maceratese Giometti&Antonello (Lettere e altri testi, 2021). Oltre a contenere i suoi disegni, saggi giovanili e altri scritti, il testo ci consegna le lettere che Deleuze ha scambiato dal 1966 al 1995, anno della sua morte, con Rosset, Klossowski, Guattari, Foucault, Luca, Villani e Martin. Leggendole tutte d’un fiato, non si può non sentire il rincorrersi di due atmosfere: l’una che si nutre di creazione, l’altra che si dissolve in deserto. Un certo fremito è al cuore delle vibranti lettere con Guattari, che ci consentono di seguire il percorso lungo il quale i due amici formulano i concetti delle loro future opere. La rivoluzione è un corollario di questa esuberanza: metafisicamente non è che creazione, liberazione di flussi e conquista di una potenza. La forza è la stessa che avvolge uno degli elementi portanti di tutta l’opera di Deleuze: l’esaltazione della vita che mette al bando qualunque meditatio mortis. «Mi danno la nausea le lamentele sulla vita, sia in teoria che in pratica, così come ogni tipo di cultura tragica…cioè di nevrosi» (Deleuze 2021, p. 87), scrive ad Arnaud Villani nell’80.
Ma un’altra semantica ridonda in quasi tutto l’epistolario: quella della pigrizia, dell’incapacità, del silenzio, della solitudine, del riposo. La forma della lettera è già l’emblema di questa tonalità («Il mio sogno è quello di smettere completamente di parlare e scrivere soltanto», ivi, p. 90). Seguire l’ordine cronologico delle sensazioni e degli affetti sarebbe superfluo, così come infedele sarebbe cercare a tutti i costi ragioni personali di tali modificazioni. Rispondendo a una domanda di Villani, Deleuze afferma di essere «un puro metafisico» (ivi, p. 87). E gli elementi in gioco nella spiegazione della sua condizione sono puramente metafisici.
La stanchezza che Deleuze cita a conclusione di molte lettere viene immediatamente associata al lavoro che lo sommerge occupando la maggior parte del suo tempo. Lo stesso vale per la pigrizia: le sue occupazioni sono la causa non solo del desiderio di riposo ma anche dell’incapacità di condurre a termine qualunque cosa. «Non sono in grado di portare avanti nulla in questo momento. Avrei bisogno di molto, molto riposo per riuscire a scrivere. […] Sento di dover sprofondare in una specie di lungo sonno, e questo proprio nel momento in cui dovrei fare tutto il contrario» (ivi, p. 74), scrive a Klossowski nel ’74. È una circolarità banale ma efficace quella che Deleuze suggerisce: il lavoro causa l’impossibilità del lavoro e la sua possibilità risiede solo nel riposo, da esso stesso impedito. È una ruota con un criceto autistico: una trappola da cui è difficile trovare una via di fuga che non sia l’eliminazione diretta del principio che causa la circolarità. Deleuze non si vede criceto, ma l’immagine che propone in una lettera del ‘72 a Gherasim Luca è dello stesso ordine: «La verità è che mi sono lasciato intrappolare (come un topo) da ogni genere di faccende, politica e non so che altro, e tutto il mio lavoro è in ritardo» (ivi, p. 80). Proseguire per forza d’inerzia sembra essere l’unica soluzione; la fatica che si sperimenta nell’esercizio di certe attività è il giogo che impedisce di aderirvi senza costrizioni. Fallisce così la possibilità di una vita oziosa che sia in grado di godere di se stessa e l’inerzia si degrada a forza che impone di procedere dritti come un mulo: «Proseguo con la versione definitiva di Che cos’è la filosofia?, ma più come un asino che si frusta da solo che come un uccellino ispirato» (ivi, p. 107).
Questi momenti di stordimento, dovuti al costante affaccendarsi che si frappone da ostacolo alla sua quiete, si accompagnano a quelli causati da «una sorta di fase desertica e d’incapacità assoluta» (ivi, p. 73). Sono i casi in cui Deleuze ha smesso di lavorare da qualche tempo, dovrebbe tornare a scrivere ma non ci riesce. È nelle – pochissime ma preziose – lettere con Foucault che emerge questo clima di pura sterilità: «È un momento sacro quello in cui uno non ha voglia di scrivere, e bisogna rispettarlo (è importante, la prego)» (ivi, p. 77). Stavolta non è più l’affanno produttivo a causare la stanchezza, ma è l’incapacità in se stessa a impedire la possibilità di ogni occupazione. Dei motivi di una tale impotenza Deleuze non fa menzione, se non a titolo di crolli o scosse. Ma non c’è da sorprendersi: la sacralità di questa condizione è precisamente la sua indipendenza e assolutezza. Il rispetto che le si deve è lo stesso che consente di viverla completamente in se stessa, senza lo spettro di faccende che la inquinino dall’interno.
Ma forse questo è vero solo parzialmente. Le pre-occupazioni ci sono, arrivano dall’esterno, stanno lì e rovinano quella presunta verginità. È su questa distinzione che in uno dei suoi ultimi saggi, L’Épuisé (1992), Deleuze punterà: mentre lo stanco non può attuare delle possibilità che ancora gli si prospettano, l’esausto non può più possibilizzare perché ha esaurito il possibile. Le lettere raccontano la stanchezza ma la lingua che freme è quella dell’esausto. Da un lato Deleuze non vede l’ora di staccarsi da ciò che peggiorerebbe la sua cattiva salute, dall’altro l’immobilità a cui questa condizione lo conduce non gli dà troppo fastidio, anzi: «Credo che la mia vita diventerà ormai sempre più immobile e ritirata, cosa che in realtà non mi spiace affatto» (ivi, p. 91).
Fin dove spingere la linea di fuga, una volta che questa è stata tracciata? Sembra questa in fondo una delle domande con cui Deleuze ci ha lasciati. «Si deve dunque dire che non si andrà mai abbastanza lontano nel senso della deterritorializzazione: non avete ancora visto niente, processo irreversibile» (Deleuze 2002, p. 367), scrive con Guattari nell’Anti-Edipo. Si tratta di fuggire e accelerare sempre di più o piuttosto di procedere, alla Benjamin, in un’inversione? A un dibattito simile, al di fuori del suo contesto politico, Deleuze sembra ormai rispondere: si tratta di compiere il processo. L’esaustione è esattamente questo compimento, che è non la fine o il termine ma la perfezione nel suo «continuare a finire» (Deleuze 2016, p. 16). L’esausto compie, benché non attui; l’esaurimento è l’esasperazione e la forma estrema di ogni conquista di potenza. Quando quest’ultima è ostacolata, la tristezza che si produce, ovvero la separazione da ciò di cui ci si credeva capaci, è ciò che fa dire: staccarsi dalla stanchezza, dopo aver trovato un certo godimento nella condizione che genera, è un modo per cadere nella sola cosa che è ancora possibile, l’esaurimento di tutto il possibile.
Ecco l’unica irreparabile fuga: non sono più criceto, topo o asino, sono solo uccellino e neanche troppo ispirato. Quelle strane forme di piacere avvertite negli stati creati dalla malattia, nonché dalla fatica e dall’impotenza, sono i segnali di una legittimazione: lasciarsi essere è ora possibile perché inevitabile. La solitudine e il ritiro assoluto di cui Deleuze parla nelle lettere sono da leggere nel loro senso perverso: posture che consentono di starsene sotto il Cielo-Necessità del Crusoe di Tournier o nello stato celeste della beatitudine esausta. Descrivendo questa condizione, sembra di sentir risuonare quel pas pas paspaspas pas di una poesia di Gherasim Luca, Passionnément, che Deleuze stesso ammette, in una lettera, di adorare. Ma per chi ancora fosse in balia della stanchezza, ciò che il nostro puro metafisico scrive a Villani potrà servire da dolce monito: «Sono arrivato qui stanco, ma vedere le vacche al pascolo mi riposa e mi rigenera» (Deleuze 2021, p. 91).
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002.
G. Deleuze, L’esausto, Nottetempo, Roma 2016.
Gilles Deleuze, Lettere e altri testi, Giometti & Antonello, Macerata 2021.