Sono passati esattamente sessant’anni dal trionfo a Cannes di Jacques Demy e del suo Les Parapluies de Cherbourg, vincitore, nel 1964, del Grand Prix du Festival international du film e del Prix de la Commission Supérieur Technique. Per celebrare questa ricorrenza, la Sala Agnès Varda del Palais du Festival ha ospitato, durante la settantasettesima edizione della kermesse, la proiezione della nuova versione 4K del film appena restaurato a Parigi dai laboratori di Éclair Classics e L.E. Diapason. Il commovente ritorno di Les Parapluies de Cherbourg nel luogo che più di mezzo secolo fa ha coronato il suo ingresso trionfale nella storia del cinema ci offre l’occasione di notare ancora una volta quanto esso non abbia mai smesso – come accade sempre con i grandi film – di interpellarci: sottoponendoci ad un’esperienza spettatoriale assolutamente irripetibile, Les Parapluies de Cherbourg continua infatti ancora oggi a toccarci in modo profondo e a darci insistentemente da pensare.
Il film racconta, come è noto, la storia dei giovani Guy e Geneviève il cui sogno d’amore viene brutalmente infranto dal sopraggiungere della guerra. Costretto infatti a partire per combattere in Algeria, Guy sarà destinato a non ritrovare più, al suo ritorno, nulla di ciò che aveva lasciato: né Geneviève, obbligata a sposarsi, incinta e sommersa dai debiti, con un altro uomo; né la dolce zia Élise, la donna che lo aveva cresciuto, che morirà alla fine del conflitto; e neppure, infine, l’esuberante negozio di ombrelli della madre di Geneviève, venduto e rimpiazzato da un’asettica lavanderia automatica. Perduta per sempre la speranza di veder realizzato il loro sogno d’amore, i due giovani non potranno che tentare faticosamente di costruirsi, da soli, una sbiadita felicità alternativa, del tutto incapace di reggere il confronto con ciò che sarebbe potuto essere.
Lo statuto di assoluta unicità che contraddistingue questo film all’interno della storia del cinema non deriva tuttavia tanto dall’oggetto del suo racconto, quanto piuttosto dalla forma incaricata di veicolarlo. Les Parapluies de Cherbourg è infatti un’opera esteticamente delirante – «il faut délirer complètement», dirà appunto Demy al suo scenografo durante la preparazione del film (Khelifa 2008) – le cui immagini, integralmente divorate da una sfrenata euforia cromatica, si combinano ad una colonna musicale altrettanto debordante dove ogni singola battuta di dialogo è pronunciata cantando. Concepita dal regista come «un Matisse qui chante» (ibidem), questa opéra-jazz avrebbe dovuto costituire la traduzione cinematografica e “popolare” (nell’accezione più alta del termine) dell’opera lirica. Risultato sorprendente di questo folle esperimento è quella che Jean-Pierre Berthomé ha definito «une histoire “mélodramatique”» – nel senso etimologico di «drame soutenu par la musique» (Berthomé 2014, p. 180) – che attraverso uno straordinario lavoro sulla musica e sul colore opera sulla realtà una radicale trasfigurazione.
Nonostante lo scetticismo e le iniziali resistenze dei produttori, Demy riuscirà, grazie all’audacia di Mag Bodard e all’entusiastica collaborazione dei suoi fedeli compagni Michel Legrand, Bernard Évein e Jacqueline Moreau, a girare il suo film in un assoluto «état de grâce» (Haustrate, Le Pavec 1981) che gli permetterà di soddisfare appieno la sua istanza formativa configurando così senza alcun compromesso ciò che aveva ambiziosamente prefigurato. Quella di Les Parapluies de Cherbourg è dunque «une mise en scène totale» (Berthomé 2014, p. 177) i cui componenti sono tutti, in ogni momento, sotto il pieno controllo del regista che ne orchestra meticolosamente la virtuosa interazione.
L’aspetto sfolgorante di questo film «en-chanté» e «en couleurs» ha fatto sì che si consolidasse nel pubblico l’idea di un Demy melenso e sdolcinato, attento soltanto all’attrazionalità della forma e dunque privo di qualsiasi spessore o profondità. Uno studio attento del suo cinema – e in particolare di Les Parapluies de Cherbourg, esito tra i più compiuti della sua estetica – permette invece di comprendere quanto dietro questa “scocca” apparentemente patinata Demy sia in effetti, come precocemente intuito da Serge Daney, «un cinéaste dur, pas du tout sentimental, morbide et joyeux» (Daney 1993, p. 102). Per farci cogliere pienamente questa sua dimensione “dura” e rigorosa sarà utile analizzare l’utilizzo operativo che il regista fa nel film degli elementi espressivi che ha a disposizione, con un’attenzione particolare proprio alla musica e al colore, strumenti cruciali per la definizione dell’identità formale di Les Parapluies de Cherbourg.
Tanto l’elemento cromatico quanto quello musicale vengono qui adoperati da Demy con estrema consapevolezza e sono messi al lavoro dal regista in una direzione propriamente drammaturgica. Se la musica significa, attraverso il continuo rispondersi e richiamarsi dei temi che accompagnano i singoli personaggi, il loro naturale appartenere l’uno all’altro (e dunque, per riflesso, la radicale insensatezza della loro separazione); il colore, oltre a dirci in ogni sequenza la corrispondenza che vige tra un personaggio e un ambiente o la frattura che ne decreta l’inconciliabilità, ci comunica anche nel corso dell’intero film il progressivo sbiadirsi della gioia incontenibile che animava un tempo i due protagonisti e che si spegne gradualmente insieme alle loro speranze giovanili.
Già da queste sintetiche considerazioni emerge chiaramente quanto quest’opera sia concepita da Demy in modo del tutto organico: in Les Parapluies de Cherbourg, infatti – come accade, secondo Ejzenštejn, nelle opere cinematografiche più compiute – ogni elemento espressivo attiva da solo una specifica prestazione drammaturgica, cooperando però anche al tempo stesso con tutti gli altri “strumenti” della virtuale “orchestra” del film al fine di generare l’immagine di un’ulteriore, più densa e più profonda, unità di senso. Musica e colore sono dunque in grado, da soli, di farci ascoltare e di farci vedere dei concetti, ma soltanto la dimensione “audiovisiva” – ancor meglio definita, sempre da Ejzenštejn, con la locuzione «montaggio verticale» (Ejzenštejn 2013, pp. 129-216) – è in grado di farci sentire il più intimo significato del film. È proprio grazie a questa complessa e rigorosa polifonia che Les Parapluies de Cherbourg riesce a farci esperire, allora, il dolore della graduale ma ineluttabile dissoluzione dei variopinti sogni giovanili nel mondo incolore degli adulti, il dramma dell’inconciliabilità tra l’enormità delle speranze dell’infanzia e lo spazio minimo che la società borghese concede agli adulti per esaudirle, la spietata brutalità della guerra che infligge a chi parte il trauma di uno sradicamento insanabile e a chi resta il tormento incessante dell’assenza.
Les Parapluies de Cherbourg è senz’altro, dunque, un film “realista” che guarda dritto nell’abisso dell’interiorità umana e nel cuore pulsante della Storia con uno sguardo duro e disincantato. Questa durezza non si manifesta, però, come si potrebbe pensare, nonostante il suo assoluto splendore formale, quanto piuttosto – lo si è visto – per mezzo di esso e grazie ad esso. È proprio mediante la trasfigurazione che opera sul reale attraverso la musica e il colore che Demy riesce a penetrarlo fino al suo nucleo più profondo e a permettere allo spettatore di accedervi con lui. Servendoci ancora una volta delle parole di Ejzenštejn, allora, potremmo concludere che in Les Parapluies de Cherbourg «la musica che attraversa l’inquadratura coinvolge protagonisti e azione e, senza confondere la sua linea indipendente, si intreccia con la struttura delle immagini in un’unica corrente di impressioni». Allo stesso modo l’elemento del colore appare come «incorporato nell’inquadratura e vibrare in essa così da produrre quella sinfonia di tinte che sorge dai sentimenti e dai pensieri legati al tema»: lo vediamo infatti «accendersi di toni rossi, azzurri, arancio, seguendo quella stessa necessità interna che fa eco al senso degli eventi ora col fremito degli ottoni, ora col canto degli strumenti a corda, ora col rimbombo dei tamburi» (Ejzenštejn 1982, pp. 87-88).
Quello a cui la settantasettesima edizione del Festival di Cannes ha reso omaggio e di cui si è tentato qui un sommario ritratto è un film struggente e meraviglioso che mai nel corso di questi sessant’anni ha smesso di risplendere e che oggi, nella sua nuova veste restaurata, brilla forse ancor di più.
Riferimenti bibliografici
J-P. Berthomé, Jacques Demy et le racines du rêve, L’Atalante, Nantes 2014.
S. Daney, L’exercice a été profitable, Monsieur, P.O.L., Paris 1993.
S. M. Ejzenštejn, Il colore, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1982.
Id., Il montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2013.
G. Haustrate, J-P. Le Pavec, Entretien avec Catherine Deneuve, in “Cinéma 81”, n. 271-272, 1981.
S.O. Khelifa, Rencontre avec Jacques Demy, dal fascicolo di corredo al cofanetto di DVD Intégrale Demy, Ciné-Tamaris/Arte, Paris 2008.
L. Venzi, Tinte esposte. Studi sul colore nel cinema, Pellegrini Editore, Cosenza 2018.
Les Parapluies de Cherbourg. Regia: Jacques Demy; sceneggiatura: Jacques Demy; fotografia: Jean Rabier; montaggio: Anne-MarieCotret, Monique Teisseire; musiche: Michel Legrand; interpreti: Catherine Deneuve, Nino Castelnuovo, Anne Vernon, Marc Michel; produzione: Parc Film, Madeleine Films, Beta Film; distribuzione: Internazionale Nembo Distribuzione Importazione Esportazione Film; origine: Francia, Germania Ovest; durata: 91’; anno: 1964.