Dato che non si scrivono più lettere, sostituite dalle e-mail, sembra ineluttabile la fine del genere “epistolario”. A parziale compenso, gli scambi verbali di battute, tipici della commedia (cinematografica e non), si arricchiscono (quando non si impoveriscono) nella metamorfosi sempre più frequente in forma di messaggi scritti su cellulari e whatsapp. Oralità e scrittura si porgono la mano, la scrittura assume i caratteri dell’oralità, l’oralità quelli della scrittura: è la nuova frontiera della fiction, cui autori a corto d’ispirazione non sembra vero di poter ricorrere, sentendosi oltretutto molto “moderni”.
Olivier Assayas, ne Il gioco delle coppie (titolo originale Doubles Vies, titolo internazionale Non fiction) fa esattamente l’opposto: non fa vedere scambi di messaggi, non fa sentire che qualche breve telefonata, non mostra immagini elettroniche, realtà virtuali che raddoppino quella reale e si confondano con essa. Della rivoluzione informatica, del digitale, degli e-book, dei tablet, delle macchine espresso miracolose, che sfornano libri in pochi minuti, si parla soltanto, si valuta se adottare le relative tecnologie, in un misto di attrazione e sospetto. Alain (Guillaume Canet), editore vecchio stile, al tempo stesso è attratto e respinto dal nuovo. A un certo punto, si paragona al protagonista di Luci d’inverno di Ingmar Bergman, un prete che ha perso la fede, ma continua a celebrare la messa in una chiesa vuota, non si sa bene perché e per chi: ma neppure qui Assayas coglie l’occasione (era facile) per farci vedere un brano del film, magari trasmesso su uno schermo televisivo – no, ne parla soltanto.
In questo senso Il gioco delle coppie non ha paura di sembrare un film “antiquato”, una commedia brillante, ma senza corpi, nel senso che corpi e volti dei pur bravissimi interpreti sono costantemente subordinati a ciò che dicono. Ciò che dicono, infatti, non possono fare a meno di dirlo, perché costituisce la loro ragione di vita: guida la loro professione e i loro comportamenti, ma anche i sentimenti, se è vero che Alain rifiuta in un primo tempo di pubblicare il nuovo romanzo (“Final Point”) del suo amico Leonard (Vincent Macaigne), in parte perché non ne può più di storie autobiografiche erotico-sentimentali, ma in parte, forse, perché sente oscuramente che la trama allude al rapporto tra Selena (Juliette Binoche; attrice, moglie di Alain) e lo stesso Leonard.
È in gioco il destino della letteratura, la sopravvivenza del libro? Di questo si parla, ma forse, più esattamente, si tratta della metamorfosi del racconto e della nostalgia che (da parte di alcuni) ancora si prova nei riguardi della sua veste tradizionale, che sia la forma-libro, la forma-teatro o la forma-film: nostalgia che ha un rapporto segreto con il desiderio e l’attrazione dei corpi. Anzi, si può dire che i corpi si attraggano nella misura in cui si sottomettono alla supremazia del linguaggio, che una volta era quella del racconto, scritto, parlato, agito, mimato o parlato-agito-mimato, visto che non si dà linguaggio parlato puro, a meno che non provenga da un corpo invisibile.
Accanto al racconto scritto e a quello orale (a quanto sembra, più originario), accanto alle vicende storiche del loro rapporto, come descritto per esempio da Walter J. Ong (in Oralità e scrittura), c’è sempre stato il racconto mimato, quello che si sviluppa mescolando gestualità, movimenti del corpo, azioni, manipolazione d’oggetti, rumori e parole (la cerimonia, il mimo, il teatro). Si racconta col corpo, si parla tramite il corpo, e questo implica l’indossare una maschera, fosse pure solo metaforica: l’attore, colui che racconta col corpo, si trova sempre nella necessità di uscire da se stesso e rappresentarsi come altro da sé. È l’incontro con i personaggi, il regno della finzione e delle identità supplementari: lì vive il racconto, e riesce a sopravvivere, sia pure precariamente, anche quando, in fondo, c’è poco da raccontare, anche quando l’incontro dei sentimenti, tra i personaggi, è del tutto subordinato alla forma dialettica della loro espressione.
Il rapporto tra Selena e Leonard, così, è messo alla prova da un romanzo, in cui Selena si riconosce, ne parla con Leonard, glielo rimprovera, al tavolo d’un bistrot, mentre consumano l’ennesimo bicchiere di birra. Leonard si difende, invoca il travestimento romanzesco, lui che il romanzesco aveva sempre mostrato di odiarlo. Nei discorsi in salotto o nelle librerie, durante colazioni e dibattiti, gli viene costantemente rinfacciato l’attaccamento alla realtà dei sentimenti, cioè proprio quello che lo rende più vivo. Di fronte a lui, anche Selena, nonostante Juliette Binoche, un po’ sbiadisce, visto che troppo facilmente rinuncia al futuro d’attrice teatrale, e si adatta a interpretare serie tv poliziesche. Lì il racconto continua a vivere e lei può sentir vivere il suo corpo: la gente per la strada la riconosce. Ma non si rende conto, Selena, che la gente riconosce il suo personaggio, vale a dire la sua maschera.
L’era della narrazione scritta o mimata, come conferma o rivelazione dell’identità (di autori, attori e spettatori) sta finendo. In fondo, sta finendo anche la commedia (inutile richiamare il fantasma di Woody Allen). Assayas gira le conversazioni, a due, a tre, di gruppo, in modo magistrale, evitando quasi sempre la routine dell’alternanza campo-controcampo. Aleggia semmai il ricordo di Rohmer, ma la leggerezza della commedia, ammesso che di commedia si possa davvero parlare, si tinge di malinconia.
Riferimenti bibliografici
W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986.