di ALMA MILETO
Le storie che saremo, in anteprima nazionale per “Archivio Aperto”.
«Nel periodo di isolamento causato dal Covid-19, sette autori interrogano questo fragile presente attraverso la forza del passato». Fin dall’esergo è chiaro l’ossimoro: cercare il presente pandemico nelle immagini di un altro tempo, trovare un “noi” che ci sfugge nella pasta di grigi sgranata degli archivi. Ma che cos’è che davvero cerchiamo in queste immagini? Cosa significa riattivare una memoria e proiettarla nel futuro, sfregando due tempi l’uno sull’altro nella speranza che si produca una scintilla? Quello che viene da pensare, al termine della visione di Le storie che saremo, opera collettiva nata durante la “prima” quarantena dalla collaborazione di sette autori con sei diversi archivi, è che il rimontaggio dei repertori del passato voglia guardare al virus come a un ricordo, o addirittura a un sogno, tentando di distanziare nel tempo della memoria un evento che al contrario ci sta, giorno dopo giorno, schiacciando sul presente.
Nascono così i sei corti prodotti dalla casa di produzione veneziana Ginko Film, da un’idea di Marco Zuin, che precetta sette registi abituati a lavorare con il foundfootage (Irene Dioniso, Daniele Atzeni, Marco Bertozzi, Claudio Casazza, Martina Melilli, Matteo Zadra, Giulia Cosentino) e li associa deliberatamente ad un archivio, ognuno il suo, per un totale di sei (8emezzo, Cinescatti di Lab 80, Home Movies, Paesaggi di famiglia, Ri-prese, Superottimisti). I lavori sono stati presentati in anteprima nazionale all’interno dell’iniziativa Home Movies “Archivio Aperto” e mandati in streaming sulla piattaforma My Movies. La domanda è: da cosa deriva la necessità di cercare altre immagini per raccontare una storia già così potentemente mediata come quella che viviamo da ormai nove mesi?
Ci sono due questioni da prendere in considerazione. La prima è che le immagini sul virus che oggi ci seppelliscono (quelle della televisione, dei social, dei giornali) sono talmente appiattite sull’attualità da non lasciare via d’uscita alla memoria. Sono immagini che non riusciamo ancora a ricordare, possiamo solo limitarci a constatarne l’esistenza. Eppure, allo stesso tempo, un evento tragico e improvviso come una pandemia (al pari di una guerra) chiede alla comunità di essere ricordato, di diventare memoria il prima possibile affinché si cristallizzi sulla linea del tempo in qualità di nuova cesura della Storia. Ci troviamo dunque nella quotidiana contraddizione di star vivendo qualcosa che già sentiamo di dover ricordare, e che pure continua a sopravanzare la nostra memoria rimanendo intorno a noi invariato e, ahimè, sempre più incorporato in una vita che gli si adegua. È, in altre parole, un presente che ancora ci si manifesta come tale e che continua a negarci lo scarto attraverso il quale saremmo in grado di guardarlo nella profondità del suo accadere (o del suo essere accaduto).
C’è però una seconda questione. Quella riguardante il senso di appartenenza che siamo chiamati a provare rispetto ad immagini del nostro presente che, se pure ancora incapaci di chiudersi in un ricordo condiviso, esistono intorno a noi in molteplici forme. Chi ha prodotto queste immagini? E soprattutto, cosa rappresentano? Se il virus ha significato l’irruzione del vuoto nella storia di un’umanità letteralmente costretta a privare gli spazi pubblici e le persone familiari dei propri corpi, le immagini non hanno potuto che nutrirsi di questi vuoti: i droni che sorvolano città disabitate; genitori, figli, amanti e amici obbligati a cercarsi nell’etere delle connessioni instabili. L’altra faccia del vuoto “spaziale” e “sentimentale” è il “pieno” del singolo individuo, della propria casa, dei nuovi linguaggi, della realtà surrogata che da mesi ognuno costruisce con i propri compagni di vita. Si tratta quindi di immagini che ritraggono l’evento come, paradossalmente, privazione di immagini – non c’è nessuno e niente da ritrarre, tutto è fermo, nessuno si incontra – o come immagine intima nata dal nascondimento dall’evento stesso – sono a casa e ritraggo la mia attesa, non l’evento in sé. Quali immagini ci ricorderanno allora davvero quanto abbiamo vissuto? Le foto del pane fatto in casa o delle piazze d’Italia vuote basteranno?
Le storie che saremo riesce ad inserirsi esattamente in questo senso di disorientamento e di mancanza che tutti, guardando i sei lavori, ci accorgiamo di provare. La nostalgia che sentiamo è quella dell’atto così umano di ricordare, delimitare un evento e appropriarcene nella rappresentazione che scegliamo di attribuirgli. A questo vuoto dobbiamo pur dare un’immagine, questa voragine deve pur riuscire a farsi memoria. Su questo lavorano tutti i corti dell’antologia.
A partire dal primo (Dioniso) tutto basato sulla sovrapposizione di alcune brevissime didascalie ai repertori. “Fino a qui sopravvissuti”, sul volto di una giovane donna che fuma seduta ad un caffè; “dove sei mondo?”, “cosa vedi?”, “in attesa”, sul paesaggio rarefatto di una gita in montagna. Lo stesso tentativo di de-realizzare lo spazio al fine di immaginarlo – nel senso di metterlo in immagine – lo fa Atzeni, presentandoci gli spazi vuoti e industriali del Sulcis, popolati da un’unica voce meccanica, una sorta di intelligenza artificiale dal tono strafottente che non trova “nulla”, nessuna presenza umana.
Le immagini del passato, più che farsi oggetto di un sentire che cerca in esse delle analogie con il presente, servono da traccia materiale ad un ricordo che si sta lentamente formando e che, attraverso il loro supporto, ha bisogno di ri-figurare un tempo che non ha ancora pienamente compreso. Anche la pandemia, a fatica, diventerà un ricordo. Marco Bertozzi è tra gli autori quello che ce lo dice più di tutti. “You can dance”, cantano gli Abba su un’immagine animata raffigurante lo stesso regista, che si sfrega gli occhi come se avesse appena sognato (ricordato?) qualcosa. E il suo sogno altro non è che un componimento armonico di “vuoti” e “pieni”.
La voce del regista, in stretto dialetto romagnolo, ci racconta della Rimini del boom economico, sovraffollata di turisti tedeschi, svizzeri, polacchi, a cui i cittadini lasciano le case d’estate per dormire “nelle capanne, come i gatti”. Ed ecco che nel racconto del pieno irrompe quello del vuoto: gli altoparlanti delle regioni rosse urlano, su immagini di assembramenti marittimi e familiari, la paura del contatto, il divieto di “stare con i nonni”, l’allerta a rimanere chiusi nelle case. Torna l’animazione, questa volta di un telefono, poi di una cinepresa primordiale che il regista racconta di aver trovato in spiaggia, infine di un caleidoscopio ottocentesco, che filmano le strade vuote dalla finestra. Si vede un’ambulanza, qualche pazzo che cammina parlando da solo. E poi di nuovo, abbandonando il presente, la voce romagnola ci racconta di come tutti a Rimini, con l’arrivo dell’estate, guardassero attoniti a testa in su – un po’ come in una fiaba di Rodari – gli elicotteri, gli striscioni delle pubblicità, gli albergoni a cui si aggiungeva sempre un nuovo piano.
Forse è allora questo il segreto. Imparare a guardare a naso in su anche il nostro assurdo e improvviso presente, trattare un surreale svuotamento come uno strano riempimento, giocare con le immagini e con i suoni per raccontare la realtà in forma di sogno, affinché essa si trasformi, piano piano, in ricordo.
Le storie che saremo. Regia: D. Atzeni, M. Bertozzi, C. Casazza, G. Cosentino, I. Dioniso, M. Melilli, M. Zadra; produzione: Ginko Film; origine: Italia; anno: 2020; durata: 23′.