Il respiro secco e accavallato, gli occhi che faticano ad abituarsi alla luce e all’aria, la bocca saziata a piccoli sorsi di acqua: la montagna è il grembo al quale, prima o poi, tutti dobbiamo tornare. Con il vento gelido che riga il viso o un leggero refolo a scompigliare i corpi, un giorno, decidiamo di raggiungere un punto che si riesce a stento a indicare con il dito; una volta arrivati, capiamo che non c’è altro da fare che tornare indietro, concedendoci infine di conservare, per dono della memoria, il contorno delle creste innevate e la sensazione dei piedi poggiati su una roccia compatta protesa nel vuoto. Su una di queste montagne, Giovanni Guasti (Filippo Timi) decide di accompagnare Pietro (Lupo Barbiero), il suo unico figlio nel cui nome risuona già quello che sarà il limite e la condanna della sua vita: lottare contro la forza meccanica di un cuneo invisibile e doloroso che tenta costantemente di sgretolarlo dall’interno. Giovanni scoprirà, poco più tardi, il significato della radicale lotta interna del figlio quando, con il proposito di raggiungere il ghiacciaio del Grenon insieme a Bruno (Cristiano Sassella), amico e coetaneo di Pietro, il ragazzo manifesterà i primi segni del mal di montagna, una condizione di cui alcuni patiscono al raggiungimento di altitudini elevate.
Se salire in quota, arrivare in cima, scalare una vetta diventeranno presto gesti da inserire nella lista delle cose da non poter fare più insieme a suo figlio, sarà Giovanni stesso a trovare un altro modo per affidare Pietro alla cura delle montagne e a trasformare così il senso di parole che, unite nel linguaggio comune, indicano generalmente il raggiungimento di un obiettivo, in un percorso di ricostruzione intima e, allo stesso tempo, materiale e visibile. Premio della giuria al 75º Festival di Cannes, il film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, tratto dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti vincitore del Premio Strega 2017, rielabora questo tema familiare raccontando la dinamica che lega e separa Pietro e Bruno, dal primo incontro all’allontanamento nell’adolescenza, fino all’età adulta in cui entrambi (interpretati, dai trent’anni in poi, da Alessandro Borghi e Luca Marinelli che incarnano perfettamente i personaggi di Cognetti, dalle cadenze della lingua alla purezza dei sentimenti) si ritroveranno di fronte a un mucchio di sassi che, dopo uno sforzo di lavoro congiunto, potranno riconoscere come casa: la barma drola – cioè la barma strana, l’eredità che Giovanni lascia a suo figlio, dopo averla a lungo cercata insieme a Bruno.
A eccezione di pochissime variazioni e di scelte narrative che escludono alcuni passaggi a vantaggio di altri, il film rispetta con assoluta fedeltà il romanzo e, specialmente nelle scene in cui Bruno e Pietro sono adulti, le immagini appaiono del tutto complementari alle parole: vediamo il primo viaggio di perlustrazione alla barma, con Bruno che cammina sicuro e Pietro che inciampa, arranca, quasi cade nella neve; assistiamo al ritorno, all’inizio dell’estate, con i due asini carichi di materiali e Bruno che congeda Pietro dal suo incarico di manovale mentre lui, con una saponetta e un asciugamano, si avvia verso un piccolo ruscello, dicendogli che rimarrà a dormire nel cantiere perché non può perdere ore di lavoro ogni giorno; seguiamo i profili dei muri a secco che riemergono, a poco a poco, mentre loro scavano con le mani e con gli attrezzi la terra dura. Il martello, i chiodi e le assi di legno diventano un tetto, mentre il mulino rudimentale sarà l’unica fonte di energia per alimentare la lampadina che illumina, poco, la barma. Il contrasto tra luce e buio – elemento costante del film – sottolinea ancora di più la claustrofobica chiusura di tutti gli ambienti interni, contrapposta alla profonda apertura data dal paesaggio.
Del resto, soprattutto grazie all’intesa tra Borghi e Marinelli, il paesaggio diventa un terzo personaggio nella resa filmica in cui assume un ruolo talmente centrale che non è più quasi possibile discernere i personaggi raccontati da Cognetti dai luoghi in cui i corpi degli attori si muovono. Nelle scene in cui Borghi e Marinelli diventano sagome mobili che si profilano sullo sfondo della montagna, emerge in tutta la sua forza il significato del sentimento di complicità raccontato da Cognetti, un legame che può esistere soltanto lì, in quei luoghi in cui l’acqua, scendendo a valle dal ghiacciaio, continua a portare con sé la memoria di un tempo passato mentre si rinnova costantemente. Nonostante gli abbracci tra i due siano rari, si percepisce anche quanto i loro corpi insieme siano parte di questo paesaggio. Persino quando si rincontrano dopo molto tempo, infatti, i due si salutano con un semplice “ciao”, e la naturalezza di questo ritrovarsi rimanda direttamente alla solidità di un’amicizia che è tale perché, nell’assenza, resta ancorata ai sassi, all’erba, a un albero, ma anche alle cose che li riguardano.
L’attenzione che Van Groeningen e Vandermeersch riservano alle cose è un ulteriore elemento che dà forma alle immagini come estensione del romanzo anche grazie alla scelta, ben ponderata, di un formato che esalta la verticalità di quei luoghi che Cognetti ha deciso di abitare, ancora prima di raccontare. La cartina di Giovanni, ad esempio, diventa una mappa che tiene traccia dei percorsi che lui prima ha compiuto da solo (tracciati con il pennarello nero), poi con Pietro (pennarello rosso), infine con Bruno (pennarello verde). Dopo la morte improvvisa di Giovanni, Pietro troverà questa cartina e deciderà di utilizzarla per ricongiungere, almeno idealmente, la sua strada a quella linea nera già tracciata (spesso accompagnata dal colore verde di Bruno), completando con il rosso tutti i percorsi a cui si era sottratto, in lite con il padre e, per naturale conseguenza, anche con la montagna. In questi percorsi, Pietro troverà i quaderni di montagna, riposti sotto alle croci delle vette, i cui fogli raccolgono le testimonianze di coloro che lì sono passati e desiderano che la traccia del loro passaggio superi quella della memoria personale.
I pensieri appuntati da Giovanni Guasti saranno segnavia di carta nel ricongiungimento con quell’uomo che Pietro aveva perso l’abitudine di chiamare padre. Sarà Bruno a raccontargli degli anni trascorsi perché, nel distacco, Giovanni ha trovato in lui un secondo figlio: la seconda eredità di Pietro è Bruno, il figlio della montagna, quel figlio che – come Pietro avrebbe voluto dire a suo padre – trova il suo destino insieme a Lara (Elisabetta Mazzullo), con la quale ha avuto una bambina e ha avviato un allevamento di mucche per produrre le tome, riprendendo il mestiere e la tecnica antica dei suoi antenati che da sempre sono stati conoscitori di quelle valli. Pietro, invece, decide di ricongiungersi alla montagna una volta all’anno, ritrovando l’amico nella loro casa d’estate, di ritorno dai suoi sempre più frequenti viaggi in Nepal, prima come documentarista e poi come scrittore. Di fronte a bicchierini di grappa svuotati e riempiti a ritmo veloce, Pietro racconta a Bruno la storia delle otto montagne e degli otto mari, mete da percorrere da chi decide di affrontare il percorso di conoscenza del mondo attraverso il viaggio; altra scelta è quella di restare al centro, decidendo di salire fino alla vetta del Monte Sumeru. Tra risate e consapevolezze, Bruno dirà all’amico di essere lui il secondo, e l’altro il primo, lasciando tuttavia aperto l’interrogativo su quale sia la strada più giusta da percorrere. Del resto, non è questa la domanda da porsi.
Poco dopo l’inizio dei lavori di ristrutturazione della barma, Pietro aveva eradicato un pino cembro che era nato all’interno della casa, e lo aveva piantato sul terreno circostante. Bruno aveva seguito il gesto dell’amico con sguardo dubbioso, certo della sua conoscenza: quelle piante sono forti se restano nel posto in cui sono nate e si indeboliscono se spostate altrove. Proprio come lui che, costretto a liquidare la sua azienda, dirà a Pietro di aver capito di non essere preparato a quel tipo di attività perché sa fare una cosa sola, e non da poco: vivere in montagna, il luogo in cui ogni cosa ha il suo nome. “Grenon” per indicare tutte le montagne di Grana (perché non è necessario distinguere una cima dall’altra); “brenga” per larice; Pietro stesso diventa, sin da subito per Bruno, “Berio”, cioè sasso. I montanari danno un nome alle cose che possono vedere e toccare, lasciando il vezzo del pensiero astratto a coloro che percepiscono la “natura” ma non l’utilità dell’acqua per lavarsi, far girare un mulino, bere, cucinare, irrigare, e portare a compimento altre azioni utili per la sopravvivenza personale.
In cima al monte Sumeru che coincide fatalmente con la loro barma drola, Bruno, attraverso i libri, smetterà di avere “poche parole, pochi pensieri” per iniziare a recuperare la memoria di quel bambino che trascorreva l’estate in alpeggio con lo zio, pascendo il gregge. Quel bambino che, per iniziativa dei genitori di Pietro, avrebbe avuto la possibilità di trasferirsi a Torino e crescere in città, nonostante l’immediata opposizione dell’amico che, in una delle poche scene di confronto con la madre (Elena Lietti), aveva detto che la città lo avrebbe ucciso. In fondo, l’errore consapevole di Bruno è stato quello di non rispettare i tempi della montagna, maturando la decisione di trascorrere nella barma l’intero inverno, nonostante il dissenso di chi gli era più vicino, anche se probabilmente aveva giù scelto di diventare parte della montagna per morte celeste, vale a dire per trasformazione del suo corpo in “cosa” utile al sostentamento di quel sistema in cui si era inserito con le sue azioni.
In uno dei momenti più toccanti del film, Bruno confesserà all’amico quale era la parte della giornata in cui si sentiva maggiormente appagato nel periodo di grazia in cui viveva da casaro insieme a Lara e alla loro bambina: andare la mattina presto nella stalla a mungere le mucche. In questo ricordo, il sentimento è ancora una volta legato a un gesto in cui l’uomo è parte di un ciclo e il linguaggio ha la sola funzione di descrivere un’azione. Il «dialetto ha un lessico ricco e preciso per indicare i luoghi, gli attrezzi, i lavori, le parti della casa, le piante, gli animali – scrive Cognetti riportando un dialogo con il suo amico Remigio nel suo personale “quaderno di montagna” – ma diventa improvvisamente povero e vago se si tratta di sentimenti», al punto che il sentire stesso si aggrappa alle cose nel caso della “tristezza”, la cui perifrasi è «mi sembra lungo. Cioè il tempo. È il tempo che quando sei triste non passa mai. Ma l’espressione va bene anche per quando soffri di nostalgia, quando ti senti solo, quando non riesci a dormire, quando non ti piace più la vita che fai» (Cognetti 2013). Il punto è che la montagna non è una metafora e Paolo Cognetti, che appare rapidamente in una scena del film accanto a Pietro, lo ha scritto chiaramente, raccontando la sua esperienza.
Ero andato in montagna con l’idea che a un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile: invece il mio vecchio nemico spuntava fuori ogni volta più forte di prima. […] Più che a una capanna nel bosco, la solitudine assomigliava a una casa degli specchi: dovunque guardassi trovavo la mia immagine riflessa, distorta, grottesca, moltiplicata infinite volte. Potevo liberarmi di tutto tranne che di lei. […] Mentre stavo lì a compiangermi vidi un’aquila volteggiare sulla mia testa. […] Se fossi stato morto, pensai, dopo un po’ avrebbe rotto gli indugi e sarebbe scesa a banchettare. Ne avevo trovati diversi, di camosci e stambecchi spolpati fino all’osso: i loro scheletri mi mettevano tristezza, però mi consolava il pensiero che avessero dato forze a qualcun altro. Potendo scegliere, mi sarebbe piaciuto fare quella fine anch’io. Poi mi alzai (Cognetti 2013).
Alla fine della storia, anche Pietro si alza, ben sapendo che non riuscirà mai più a tornare nel luogo in cui l’amico è morto perché «non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia» (Cognetti 2016, p. 199): le otto montagne, gli otto mari e il monte Sumeru compongono un sistema chiuso che si può soltanto attraversare con la certezza che la strada da tracciare non sarà mai sovrapposta ad altre, anche se spesso riposta accanto a quella di linee di diverso colore.
Riferimenti bibliografici
P. Cognetti, Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna, Terre di mezzo, Milano 2013.
Id., Le otto montagne, Einaudi, Torino 2016.
Le otto montagne. Regia: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch; sceneggiatura: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch; fotografia: Ruben Impens; montaggio: Nico Leunen; musiche: Daniel Norgen; interpreti: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Filippo Timi, Elena Lietti, Elisabetta Mazzullo, Lupo Barbiero, Cristiano Sassella, Andrea Palma, Surakshya Panta; produzione: Wildside, Rufus, Menuetto, Pyramide Productions, Vision Distribution; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia, Belgio, Francia; durata: 147’; anno: 2022.