Il bacio della pantera (Schrader, 1982).

Tra i modelli letterari celebri della forma-diario, c’è indubbiamente il Diario di un curato di campagna di Bernanos, da cui Bresson trasse il film del 1951, amato e studiato da Paul Schrader. Questi riprende la forma-diario come principio d’ispirazione in First Reformed (uscito ora in dvd); contemporaneamente, esce una nuova edizione del volume Transcendental Style in Film (per i tipi della University of California Press), con una nuova introduzione (“Rethinking Transcendental Style”), in cui Schrader torna sui temi toccati 45 anni fa, alla luce dell’ulteriore, cospicua produzione, da allora verificatasi, di quello che adesso l’autore preferisce chiamare slow cinema.

Cosa ne è stato dello stile trascendentale? Cosa è accaduto dagli anni cinquanta del ‘900 ad oggi, a cambiare modalità di creazione e fruizione dei film, spesso relegandone la visione nei festival specializzati e nelle gallerie d’arte? La risposta che Schrader dà ai suoi stessi interrogativi non riguarda, come ci si aspetterebbe, la rivoluzione apportata dai nuovi media; no, Schrader fa due nomi, portatori della vera rivoluzione stilistica: quello di Deleuze (sul piano filosofico) e quello di Andrei Tarkovskij (con i suoi cinque film girati tra il 1962 e il 1981). Le inquadrature lunghe di Tarkovskij sono, per Schrader, molto più che semplicemente lunghe – sono meditazioni filosofiche visualizzate. Se il Tempo (specialmente a Hollywood, ma non solo) è stato sempre al servizio del Racconto, tanto che lo stile trascendentale poteva configurarsi come un’eccezione, ora, con lo slow cinema, è il Tempo a diventare Racconto.

Schrader compila un elenco di registi, da Béla Tarr a Lav Diaz, da Pedro Costa a Tarkovskij, da Chantal Akerman a Straub/Huillet, da Tsai Ming-Liang ad Albert Serra, da Stan Brakhage a Michelangelo Frammartino, da Anghelopoulos a Gus van Sant, e parecchi altri, accomunati dal rifiuto del predominio della narrazione, o dal sospetto verso di essa, e ne elenca minuziosamente le tecniche: riprese lunghe, con preferenza per quelle statiche, inquadrature che si prolungano molto oltre l’uscita di campo degli attori, o hanno inizio molto prima della loro entrata, prevalenza delle immagini sui dialoghi, azione ridotta al minimo, assenza o scelta selezionata della musica, immagini piatte piuttosto che profondità di campo ecc. Si tratta, sulla scia di Deleuze, di valorizzare il tempo rispetto al movimento, e diventa quindi fondamentale l’apporto di Tarkovskij, “scultore del tempo”.

Allontanandosi dal nucleo narrativo, però, il cinema corre il rischio d’una deriva verso direzioni diverse, tutte esposte al pericolo della noia (che Schrader ritiene sia da evitare) e quindi al rischio di perdere definitivamente il suo pubblico. Queste direzioni sono tre, e Schrader le indica con i seguenti nomi:

  • la telecamera di sorveglianza, che registra tutto per tutto il tempo, anche quando “non succede niente”, ossia non si verifica altro che il passaggio del tempo;
  • la galleria d’arte, in cui si presentano di solito immagini-video come pure combinazioni di forme e colori, secondo la lezione di Stan Brakhage e della video-arte;
  • il Mandala, manufatto di preghiera nelle religioni orientali, inteso come spazio d’interiorità e staticità assoluta, secondo le caratteristiche del cinema di Apichatpong Weerasethakul e dei nuovi cineasti thailandesi.

La nozione di slow cinema, così come Schrader la delinea nella nuova introduzione al suo libro, insistendo sull’allontanamento dalla centralità narrativa e sul ruolo subordinato del montaggio, risente certo delle considerazioni deleuziane sull’immagine-tempo e amplia evidentemente i confini di quello che ormai potrebbe continuare a chiamarsi “stile trascendentale” solo per convenzione. Schrader, tuttavia, è convinto che il lascito filmico di Tarkovskij tracci un limite, un cerchio, si potrebbe dire paradossalmente un Mandala, all’interno del quale occorrerebbe restare, per trarre profitto dalle residue possibilità e potenzialità narrative che il cinema, anche ricorrendo a forme di montaggio soft, può ancora sfruttare, e su questo piano First Reformed si pone come esemplare.

Nell’idearlo, Schrader percorre  un circuito complesso, sì, ma che non rinnega la narrazione, dalla letteratura (Bernanos) al cinema (Bresson, ma anche il Bergman di Luci d’inverno) alla critica (“Il cinema del trascendente”), poi di nuovo al cinema, toccando territori filosofici e temi esistenziali, mentre l’itinerario di Bresson, in un certo senso, era molto più diretto.

In ogni caso, la decisione di tenere un diario sembra la premessa di uno stato di crisi esistenziale: se è presa da un prete, un pastore d’anime, un uomo di fede, di solito significa che questa fede sta vacillando. Perché? Perché nel diario, se non è scritto con intenzioni programmaticamente edificanti, non può non fare irruzione il caos del reale, a mettere in dubbio, con i suoi accadimenti spesso atroci o insensati, la presunta armonia dei disegni divini.

“Le acque di Siloe scorrono in silenzio”, diceva Isaia, ripreso da Thomas Merton, cui padre Toller ama riferirsi. Tenere insieme angoscia e speranza è forse soltanto una questione di contatto, di silenzioso contatto corporeo. Aderire completamente al corpo dell’Altro, corpo di Toller e corpo di Mary (la vedova di Michael), immobili, senza peso, in grado, solo allora, di levitare alla De Oliveira sul mondo, librarsi nello spazio interstellare, e poi ridiscendere sullo sfascio del pianeta, senza soccombere alla disperazione.

Schrader adotta allora certi moduli del cinema d’autore europeo, di quello che chiama slow cinema, nella nuova introduzione al suo libro: per esempio, rimane a inquadrare oltre ogni consuetudine hollywoodiana, uno spazio interno vuoto, dopo che gli attori lo hanno lasciato, uscendo di campo. First Reformed, il film, è dunque la risposta, difficile e problematica, ai problemi apparentemente insolubili che pone una parte del film stesso (il dialogo Toller-Michael).

È una metafisica, ma anche una fisica, del corpo e del sangue, consacrati sull’altare di una chiesa semivuota, ridotta a mera attrazione turistica, pretesto per esibizioni di potere e di prestigio da parte di alcuni dei responsabili stessi della devastazione planetaria. È forte la tentazione di accelerare l’arrivo dell’Apocalisse, di combattere il fuoco col fuoco, ponendo fine a tutto. A 250 anni dalla sua fondazione, salterà in aria la chiesa riformata, e con essa i malvagi e gli indifferenti che vi sono riuniti? Il diario sta per diventare il diario di un terrorista? Di un terrorista o d’un martire? Dove passa esattamente la differenza? Qui, quando il cinema della trascendenza sta per convertirsi nel noir (l’altra passione del regista), Schrader sembra giocare con la suspense, ma il gioco è serio, riguarda sempre carne e sangue, il corpo, il pane, il vino, l’amore, la vita.

Tutte le inquadrature, anche quelle prive di dialogo, “parlano”, alla maniera in cui parlano le inquadrature, ossia riflettono il linguaggio muto delle cose, il loro potere misterioso di apparire, che solo il cinema rende possibile: l’enigma d’una porta chiusa, l’inquietudine d’una lenta carrellata, il disfarsi d’un corpo consumato dal rimorso, i liquidi organici che si tingono di sangue, il sollievo di un abbraccio, la magia della levitazione dei corpi. È slow cinema.

Riferimenti bibliografici
P. Schrader, Transcendental Style in Film. Ozu, Bresson, Dreyer, University of California Press, Oakland 2018.

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