Abbas Kiarostami è stato senza dubbio il più grande regista iraniano e uno dei maestri della cinematografia contemporanea, come ricorda Marco Dalla Gassa nel suo ultimo libro, Le condizioni del senso. Il cinema sperimentale di Abbas Kiarostami. I film di Kiarostami hanno rivoluzionato il nostro modo di concepire l’immagine e hanno trasformato il nostro sguardo come spettatori. Marco Dalla Gassa è uno dei massimi esperti, italiani e non solo, dell’opera del regista iraniano. Il sottotitolo del suo libro non deve pertanto trarci in inganno: non siamo di fronte a uno studio dedicato al lavoro che Kiarostami ha dedicato alla sperimentazione dei “valori espositivi”, come li avrebbe definiti Walter Benjamin, delle immagini in movimento. Sarebbe comunque una fetta importante della produzione del regista: ricordo Five e Shirin per citare solo due tra i titoli più conosciuti.

È un aspetto del suo commercio con le immagini che si intreccia tra l’altro con un’altra passione del regista: quella per la fotografia. Entrambe – la fotografia e quella che, con molte esitazioni e per pure esigenze comunicative, chiamerei “videoarte” – insistono su due aspetti liminari del modo in cui il cinema opera sulle immagini in movimento. Mi riferisco alla possibilità di cogliere il movimento della vita non nel suo flusso, ma nel dettaglio, nel frammento, nei suoi punti d’arresto; mi riferisco anche agli effetti che le modalità installative (formato, cornice, impianto espositivo) hanno nel nostro modo di fruire le immagini. Entrambi gli aspetti ci dicono qualcosa di fondamentale sulle immagini in movimento e sull’esperienza che ne facciamo: qualcosa che il grande racconto del cinema rischia a volte di far scomparire.

Il saggio di Dalla Gassa lavora esattamente sulle zone di confine appena indicate. Sarebbe tuttavia un errore ritenerlo uno studio specialistico. Il sottotitolo può trarci in inganno: qui non è in gioco una ricerca su un segmento specifico – il “cinema sperimentale” – della produzione di Kiarostami. Tutta l’opera di Kiarostami è, sotto un certo profilo, una forma di cinema sperimentale. Per comprendere questa posizione, bisogna prendere in considerazione il titolo del saggio. Le “condizioni del senso” sono le condizioni grazie alle quali ci è possibile fare un’esperienza attraverso lo scorrere delle immagini. Filosoficamente parlando, le condizioni del senso sono anche le condizioni di possibilità di un’esperienza in genere, non già orientata da criteri particolari di ricerca, ma aperta alla ricerca del senso della contingenza. Ho il sospetto che questo significato profondo della locuzione “le condizioni del senso” circoli tra le righe del testo, in parte per la sensibilità e la formazione dell’autore, in parte per il dialogo che egli stabilisce in queste pagine con alcuni filosofi interpreti dell’opera di Kiarostami: Jean-Luc Nancy e Pietro Montani in testa. È tenendo a mente questo doppio livello che dobbiamo leggere il saggio di Dalla Gassa. Ma ciò accade perché è così che dobbiamo guardare anche i film di Kiarostami.

La struttura del libro presenta in modo esemplare l’esigenza teorica che lo muove, mettendo continuamente a confronto i film – intesi nel senso corrente – che compongono la cinematografia di Kiarostami con le sue sperimentazioni sulle immagini. L’obiettivo di questo esercizio comparativo è chiaro: si tratta di mostrare come i due aspetti del lavoro del regista, quello più schiettamente cinematografico e quello sperimentale, convergano verso una riflessione e una pratica delle condizioni di senso delle immagini. Non è mai un esercizio fine a se stesso, anche nelle più raffinate sperimentazioni espositive: in gioco c’è sempre la possibilità che le immagini ci facciano fare un’esperienza della realtà. È perciò significativo che Dalla Gassa prenda le mosse da uno dei film che hanno imposto Abbas Kiarostami nel panorama cinematografico internazionale: intendo parlare di Close up. La posta in gioco in questo film così poco convenzionale, dove il regista incontra un personaggio, un uomo che si è finto il regista Mohsen Makhmalbaf con due appassionati di cinema, subendo poi le conseguenze del suo inganno, è quella dell’inizio del racconto: dove possiamo dire che il film smette di essere una semplice raccolta documentaristica di fatti e diventa una narrazione? Non a caso, come ricorda Dalla Gassa, Pietro Montani, nell’Immaginazione narrativa, aveva visto proprio in questo film uno dei luoghi in cui riconosciamo che il racconto del cinema eccede i confini del racconto letterario, portandoci in quella zona dell’esperienza dove l’immaginazione incontra la vita.

Close up è anche il film dove Kiarostami elabora per la prima volta il dispositivo di visione che Alain Bergala chiama boîte à camera: una “scatola” – in Close up e di nuovo in Ten, l’interno di un’automobile in movimento – dall’interno della quale l’occhio della macchina da presa esplora la realtà esterna, rendendo esplicite le pieghe riflessive implicate nell’atto della visione. Si potrebbe anche dire che Close up è il primo film di Kiarostami, nel quale un dispositivo espositivo, una sorta di installazione, è situato nel cuore del racconto. L’istanza sperimentale attraversa quindi, fin dalle sue origini, tutta l’opera del regista iraniano. È un motivo che si presenta a tratti sotto forma di accompagnamento, mentre in altri momenti diventa il tema dominante del suo lavoro. Sempre, però, mantenendo sullo sfondo l’esigenza di riflettere sulla pulsione irriducibile che esibiscono le immagini verso l’istanza di raccontare la realtà. Come sottolinea Dalla Gassa, le inquadrature fisse dei diversi episodi di Five sono tentativi di mostrare come già una singola immagine contenga una cellula narrativa irriducibile: qualcosa – ad esempio uno stormo di papere che nuotano sulla superficie dell’acqua – entra in campo, lo attraversa e poi esce. Qualcosa, che fa pensare a un prima e a un dopo, è accaduto.

Occorre lavorare sul fuori campo dell’immagine per sviluppare questa intuizione: in questo Kiarostami era d’altronde un maestro indiscusso. Lo stesso vale per le inquadrature dei volti delle spettatrici del film Shirin, che sono colte nell’atto di assistere a una rappresentazione della storia di Khosrow e Shirin, celebre racconto d’amore del poeta persiano Nezami. Dalla Gassa osserva giustamente che si tratta di un effetto Kulešov sonoro, in cui non associamo alle immagini altre immagini, ma gli echi dello spettacolo. Come fa notare l’autore in conclusione, Abbas Kiarostami ha inaugurato una linea di cinema, ma ha anche tenuto a battesimo una generazione di spettatori, di cui il prologo del libro ci offre uno squarcio inconsueto. Il cinema dopo Kiarostami è un cinema che preserva e custodisce una teoria “dormiente”: non solo una certa capacità di guardare le cose, ma anche di interrogarsi sul senso del nostro vedere.

Riferimenti bibliografici
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini e Associati, Milano 1999.

Marco Dalla Gassa, Le condizioni del senso. Il cinema sperimentale di Abbas Kiarostami, Marsilio, Venezia 2024.

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