five-kiarostami

Sarebbe forse sufficiente gettare uno sguardo a volo d’uccello sull’opera di Abbas Kiarostami per avanzare l’ipotesi di un progressivo svuotamento costruttivo (sul piano stilistico e narrativo) cui sembra essere andato incontro il suo cinema, almeno fino al momento precedente la realizzazione dei suoi ultimi due film, Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012), che appaiono come le fonti d’innesco di una nuova fase produttiva di film per la sala, segnata – potremmo dire – da un rigenerato piacere per la narrazione. Una nuova fase, questa, che è stata bruscamente interrotta dalla scomparsa del regista.

Se si guarda, però, alla produzione di Kiarostami a partire dalla metà degli anni Novanta si possono individuare le tracce di una crescente attenzione nei confronti delle relazioni temporali che lo spettatore istituisce con l’immagine filmica; nei confronti di quell’esperienza della durata filmica che – con Jacques Aumont – potremmo considerare come la risultante di “una combinazione tra la durata oggettiva del tempo che scorre, i cambiamenti che sopraggiungono negli oggetti percepiti nel corso di questo tempo, e l’intensità psicologica con cui registriamo gli uni e gli altri” (Aumont, 2007, pp. 106-107).

L’attenzione di Kiarostami per questi aspetti della visione filmica è sempre stata notevole, anche nella prima parte della sua carriera, e anche nei film per la sala (è proprio su quest’attenzione che si fonda, tra l’altro, quella che Jean-Luc Nancy ha definito come un’assiomatica dello sguardo che ha a lungo contraddistinto lo stile visivo di Kiarostami). Ciò nonostante, da un certo momento in poi questa riflessione sulla temporalità dell’immagine ha assunto evidentemente una centralità pressoché assoluta in alcune opere che il regista ha affiancato ai suoi film più noti. Opere, queste, che lo hanno talvolta portato a sperimentare spazi fruitivi differenti rispetto alla sala cinematografica.

Si pensi, per esempio, a Cena per uno (1995), episodio del film collettivo Lumière et Compagnie; ma anche a Nascita della luce (1997), un breve video di cinque minuti realizzato in Beta SP, che risulta essere – peraltro – il primo lavoro del regista non realizzato in pellicola; ma si pensi anche a installazioni come Sleepers (2001), Ten Minutes Older (2001), Summer Afternoon (2006), Control Tower (2010) fino a 24 Frames (2016); o al dittico composto da Where is my Romeo? (2007) e il già menzionato Shirin; e si pensi – infine e soprattutto – a Five Dedicated to Ozu (2003), oggetto specifico di questa riflessione.

Questo film, della durata complessiva di settantaquattro minuti, è composto da cinque pianisequenza (tre dei quali sono piani fissi e altri due in cui si rilevano dei minimi  movimenti della videocamera) di durata compresa tra i sette e i ventinove minuti, che si configurano come cinque distinti episodi. Ciascun episodio si può considerare  come una vera e propria veduta temporalizzata, all’interno della quale si generano delle micro-variazioni che possono interessare tanto la luce, quanto il movimento delle persone, degli animali o degli oggetti presenti in campo.

Questi, nell’ordine, i “contenuti” dei cinque episodi: un pezzo di legno viene sospinto sulla battigia dalle onde del mare; alcune persone passeggiano sul lungomare attraversando costantemente l’inquadratura in ambo i sensi; cinque cani sulla battigia di una spiaggia sono filmati a notevole distanza mentre interagiscono tra loro; un gruppo di anatre attraversa l’inquadratura prima in un senso e poi nell’altro; la luna si specchia nel mare fino al sorgere dell’alba.

Un film estremo, dunque, all’interno del quale ciascun episodio è segnato dall’assenza di una trama, almeno se intesa in senso tradizionale. Un film nel quale la visione di eventi assolutamente ordinari diviene un fatto straordinario a causa della fissità e della durata dello sguardo che la caratterizza. La coscienza dello sguardo passa proprio attraverso questa durata, la quale fa sì che esso cessi di essere assorbimento meccanico di immagini per divenire man mano una sorta di contemplazione che trova nel piacere di guardare il suo fine ultimo.

Il film disegna dunque uno spazio e un tempo per nulla assoggettati alla presenza di un’azione efficace sul piano drammatico, ma liberi, semmai, di lasciarsi invadere da azioni casuali, svincolate da qualsiasi finalità predeterminata. Se vogliamo, Five non è che un’estremizzazione di quella rottura degli schemi senso-motori – di deleuziana memoria – su cui l’intero cinema del regista iraniano sembra fondarsi. E l’omaggio a Yasujiro Ozu, esplicitato nel sottotitolo originale del film, sembra sostanziare questa ipotesi.

Gli elementi in campo acquistano valore e senso solo in funzione delle relazioni che stabiliscono con lo spazio e il tempo dell’inquadratura; non più personaggi, ma semplici presenze, indifferentemente umane, animali o vegetali. Non più momenti di sospensione narrativa che rompono la continuità dell’azione per portare l’attenzione sullo sguardo, ma  spazi vuoti e tempi morti che invadono la totalità del film per essere, semmai, interrotti da sporadiche e brevi micro-narrazioni che casualmente si generano al loro interno.

Se pensiamo al primo episodio di Five, è innegabile che nel guardare il tronchetto di legno sospinto dalle onde del mare noi non vediamo null’altro che quello. Ci concentriamo sulle forme, sulla ripetitività del movimento e, tutt’al più, riusciamo a creare un’associazione ritmica tra questo e il rumore del mare che lo accompagna. Siamo totalmente immersi in una condizione di attesa che razionalmente può apparirci priva di senso; siamo assorbiti da questo dramma minimo dal quale scaturisce una sorta di suspence elementare che è tutta giocata a livello figurativo e il cui apice è rappresentato da “eventi” assolutamente semplici, quali lo spezzarsi in due parti del tronchetto di legno o lo sparire di una delle due metà oltre il margine destro dell’inquadratura.

Preso atto di questi elementi di riflessione suggeriti dall’impianto estetico del film, va notato che Five si presta a una riflessione ulteriore, che sappia tenere conto di due differenti modalità di fruizione. Il progetto iniziale di quest’opera, nato nel 2002 con il titolo The Lagoon and the Moon per essere presentato in anteprima come “collezione di cortometraggi digitali” nella retrospettiva torinese Le strade di Kiarostami, è stato successivamente trasformato dal regista in un film sperimentale in cinque episodi presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2004 con il suo titolo definitivo, per essere infine rilocato nel 2007 al MoMA di New York come installazione video trasmessa in loop su cinque schermi differenti nel corso della retrospettiva Abbas Kiarostami Image-Maker.

L’atto di rilocazione implica, necessariamente, una riconfigurazione di quelli che – ancora con Aumont – possiamo definire come i “fattori situazionali che regolano il rapporto dello spettatore con l’immagine” (p. 137). Il passaggio dalla sala al museo determina per lo spettatore l’impossibilità di una visione integrale e continuativa del video e lo costringe ad uno spostamento fisico tra uno schermo e l’altro, e – di conseguenza – tra un episodio e l’altro del progetto unitario originariamente presentato a Cannes. Allo spettatore immobile e immerso nell’oscurità della sala si sostituisce, dunque, il visitatore del museo, il quale può godere di un’ampia libertà di movimento all’interno di un ambiente ben illuminato. L’operazione compiuta da Kiarostami apre – peraltro – una serie di interrogativi che non concernono soltanto la disposizione spaziale dell’opera, ma anche la riconfigurazione dell’esperienza temporale dello spettatore, reinterrogandola alla luce di una nuova condizione fruitiva. Si potrebbe qui riprendere l’interrogativo posto – in termini più generali, a proposito del rapporto tra lo spazio della sala e lo spazio del museo – da Philippe Dubois: “Cosa prova [lo spettatore] quando passa dalla durata standard imposta dallo scorrimento continuo e unico del film, a delle modalità di visione più aleatorie, spesso frammentate e ripetitive, di immagini che sono sempre là, che possiamo lasciare e ritrovare a nostro modo?” (Dubois, 2006, p. 41).

Certamente, si può dire, la persistenza dello sguardo e l’esperienza della durata diventano qui una scelta dello spettattoreflaneur del museo, laddove queste risultavano essere più un’imposizione per lo spettatore in sala. A partire dal medesimo prodotto, e reinterrogando le possibilità dello sguardo attraverso una variazione dell’esperienza mediale, Kiarostami mette dunque in discussione le logiche di base soggiacenti al suo film, e trasforma drasticamente le strutture spazio-temporali che regolano la relazione tra lo spettatore e l’immagine.

Forzare i limiti dello sguardo è stato, d’altronde, il fil rouge che ha attraversato l’intera produzione del regista. E sconfinare dalla sala, in fondo, non è stato altro che un modo per perpetrare un’idea di cinema solida senza scadere nel manierismo, ma reinventando un modo diverso di porre domande che restano in continuità tra loro. Non più “cinema dal finestrino”, non più “cinema al volante”, non più “neorealismo iraniano”, ma un cinema che si reinventa continuamente e reinventa le modalità attraverso cui mettere in scena la complessa relazione tra narrazione e visione. Tra azione e sguardo.

Riferimenti bibliografici:
J. Aumont, L’immagine, Lindau, Torino 2007.
P. Dubois, Esporre il movimento? Sull’effetto cinema nell’arte contemporanea, in M.M. Gazzano (a cura di), Cinema, arti elettroniche, intermedialità, «Bianco e nero», nn. 1-2, 2006.
J.-L. Nancy, Kiarostami. L’evidenza del film, Donzelli, Roma, 2004.

Tags     Abbas Kiarostami, Five, Moma
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