Kay si muove lentamente, è incerta, attorniata da uomini, sottoposta a pressioni. Deve decidere, e lo farà. In principio era la decisione, dunque. In principio di cosa? Dello stesso venire alla luce del soggetto, del suo uscire allo scoperto, dell’assumersi coraggiosamente dei rischi, e di ritrovare intorno alla scelta compiuta l’intera comunità. È la scelta di Kay (Meryl Streep), proprietaria del “Washington Post”, di stare dalla parte della verità, di resistere alle pressioni del potere. Uscire allo scoperto per sottrarsi dall’ombra del padre e del marito, ma anche per corrispondervi, per non deluderli (come dice), per essere all’altezza delle loro aspirazioni e dei loro desideri. Decidere è agire, agire è esprimersi e dunque esporsi al giudizio, al fallimento o al successo. Decidere è anche assumersi delle responsabilità, individuando quelle degli altri (le accuse al potere). Decidere è superare le resistenze di chi ci sta intorno, superare i dubbi. Come nella grande epica americana, l’eroe deve essere in grado di superare tutti gli ostacoli ed essere all’altezza di incarnare lo spirito di una comunità, qui il diritto di affermare la verità contro gli abusi del potere (che nel suo esercizio è sempre “abusivo”).
Ma la decisione rende liberi? La decisione apre un’alternativa al potere o invece è la leva che lo fonda e ad esso è costantemente intrecciata, anche se usata per la “giusta causa” (come emerge nell’amicizia stretta di Kay, ma anche del direttore del “Washington Post”, Tom Hanks, con i potenti)? O si tratta al fondo di far giocare due poteri, contrapposti e solidali allo stesso tempo, come governo e stampa? Potere esecutivo e opinione pubblica, la cui dialettica è al centro della democrazia americana, come già Tocqueville aveva ben compreso? Escludendo così del tutto la dimensione politica, quella che, indipendentemente dai Pentagon Papers, sapeva che cosa era, e cosa sarebbe stato, il Vietnam.
Il potere è sempre esercitato nel nome del padre: del padre di Kay e dei padri costituenti. E sarà la Legge, cioè la Corte, a decidere tra la verità (dell’opinione pubblica) e la menzogna (del potere politico), la trasparenza della prima e la segretezza del secondo, da quale parte la nazione deve stare. The Post afferma, attraverso la centralità della decisione e la responsabilità e il potere che la orientano, il modello di un’America guidata dalla verità democratica e dall’eroe (ora dall’eroina) capace di affermarla, sempre nel segno della comunità e della tradizione. È l’America tutelata dalla Legge, dal buon senso e dalla condivisione, in definitiva dalla (buona) volontà. È l’America che allontana da sé lo scabroso, il caos, l’ingovernabile, il “frammentario” e il “convulso” di cui parla Whitman, che animano i momenti fondativi di una nazione. Quelli che vengono cancellati dalla decisione e dall’assunzione di responsabilità, sotto il dispositivo tranquillizzante del valore e della tradizione, in definitiva dell’identità. Quelli che nascondono il fondamento anarchico della democrazia, il suo tratto impuro e nero (come nella tradizione gotica), e la riducono all’“opinione pubblica”. Riducono il molteplice all’uno, e questo all’establishment, a cui appartengono i protagonisti di The Post e lo stesso cinema di Spielberg. Appartenenza che ne segna allo stesso tempo forza e limiti.
Ma c’è l’altra America, quella che da sempre la grande letteratura e il grande cinema hanno saputo raccontare, quella che disfa il regime identitario (I’m large … I contain multitudes, ancora dice Whitman), quella che fa risuonare le molte voci dell’ordinario (Paterson di Jarmush), quella che non elude il tratto nero e sanguinario della fondazione della nazione (L’inganno della Coppola, Scorsese, l’ultimo Tarantino), quella che sa che solo decostruendo il binomio rassicurante della contrapposizione tra verità e menzogna (come ha fatto magistralmente Zemeckis con Allied), si può giungere alla potenza propria di una verità più profonda, leggendaria. Come nel finale de L’uomo che uccise Liberty Valance, che istituisce le regole del passaggio dal West all’East: “Se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”.
C’è un’altra America, e un altro cinema, dunque, che sanno che dietro il potere (politico, mediatico) ci sono spesso verità segrete, opache, che lo collocano sempre nel solco tracciato dal Padre, e che lasciano il soggetto in una perenne infanzia, vissuta sotto il segno della grandezza e della megalomania. Uno per tutti, inarrivabile: Citizen Kane (1941) di Welles, che costituisce il racconto più potente del potere mediatico e politico, e dei segreti regressivi che lo abitano, raccolti in una parola Rosebud, e nello slittino d’infanzia nostalgicamente ricordato sul punto di morte. Segreti che non fanno comunità, ma che, destrutturando il regime identitario e veritativo della volontà e della decisione, ne palesano il dispositivo di potere che lo anima, creando le condizioni per la reinvenzione altra e creativa della vita (come accadrà nella magia di F for Fake)
Kane e Kay dunque, contrapposti e uguali, come la due facce dell’America, quella verace che trascende la vita nel nome del valore e nello stesso nome ne fa un dispositivo di potere, e quella falsa, dietro la quale c’è l’uomo malato, senza valori, ma che evidenzia come l’esercizio del potere sia sempre, anche in nome della pubblica opinione, una messa in scacco della forza della vita. La decisione, giusta (in nome della comunità) o sbagliata (in nome di se stessi), saldando il soggetto alla sua azione e alla sua volontà, gli sottrae definitivamente la potenza di agire, di fare altrimenti, di reinventare in forma politica e “comunitaria” la vita. La mantiene all’ombra del Padre.
Ma l’America è anche altro, è quella del “cameratismo” di Whitman (su cui insiste Deleuze), quella ordinaria ed eterogenea che si compone intorno a relazioni reinventate ed eroismi occasionali ed involontari (come in Eastwood), quella capace di mettere in relazione l’eterogeneo senza unificarlo (come in Wiseman), quella capace di immaginarsi in una “fratellanza” che elude ogni funzione paterna. Come dice Melville in Redburn: «Più che una nazione, siamo un mondo, perché, a meno di chiamare, come Melchisedec, il mondo intero nostro padre, siamo senza padre né madre. […] Siamo gli eredi di tutti i secoli di tutti i tempi, e la nostra eredità la dividiamo con tutte le nazioni».
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1997.
H. Melville, Redburn, Marlin, Cava de’ Tirreni 2006.
W. Whitman, Foglie d’erba, Feltrinelli, Milano 2014.