Il cinema moderno ha inventato gli intercessori, personaggi che stanno nella finzione per conto dell’autore a cui permettono di liberare una visione estetico-etica del mondo. E nel cinema il personaggio-intercessore è legato molto spesso ad un attore: Marcello Mastroianni per Fellini, Monica Vitti per Antonioni, Jean-Pierre Léaud per Truffaut e così via.

Il cinema di Roberto Andò, che ha avuto nei suoi film più felici un intercessore come Toni Servillo, negli ultimi due film – La stranezza e L’abbaglio – ha operato una mossa felicemente spiazzante: ha accostato a Servillo Ficarra e Picone.

Con questo gesto, Andò non ha risolto un problema di casting, ha fatto qualcosa in più e di notevole per dare espressione alla complessità del suo mondo, quello di un artista ed intellettuale siciliano che eredita tutta l’ambivalenza creativa di una tradizione, dove il sentimento scettico nei confronti del mondo ha saputo declinarsi in forme e toni diversi, dal tragico al comico.

Ma vediamo la nuova felice invenzione de L’abbaglio. Qui l’intercessore non è Pirandello-Servillo, come nel film precedente, ma il colonnello Giordano Orsini-Servillo, che guida le Camice rosse che nel 1860 sbarcano in Sicilia agli ordini di Garibaldi per liberarla dai Borboni.

Il film sembra dunque raccontare un momento dell’epopea risorgimentale garibaldina. Ma subito vediamo che le cose non stanno così. L’entrata in campo delle maschere comiche di Domenico Tricò (Ficarra), contadino emigrato al Nord, e Rosario Spitale (Picone), un baro che si finge veneto, sposta la prospettiva, ma non in direzione di quello che ci si aspetterebbe, cioè un capovolgimento della forma epica (Grande 2003), come ne La grande guerra, nella contrapposizione tra maschere comiche in primo piano e dramma bellico sullo sfondo, ma in un gioco spiazzante, per cui la finzione va lì dove non ci aspettiamo, seguendo di fatto le due maschere comiche su una pista imprevista, che si dimentica quasi completamente dell’epos, lasciato fuori campo, affidato solo alla notizia che Garibaldi è entrato a Palermo.

Ma per poter entrare a Palermo, Garibaldi ha chiesto a Giordano Orsini di ingannare l’esercito borbonico, fuggendo con poche Camicie rosse, ma facendo credere che insieme a lui ci fosse Garibaldi stesso. È la costruzione di un abbaglio, di un depistaggio. Ed è anche il gioco che il film stesso fa con lo spettatore, portandolo ad un punto dove ci aspetteremmo di trovare altro, per esempio la morte sacrificale della maschera comica, che possa redimerla dalla sua colpa (dalla sua codardia), per il bene della causa. E invece nulla di tutto ciò: quelle maschere nel finale si mettono in scena, inscrivono esplicitamente la finzione comica nel film. Non fuggono, ma fingono di essere prete e sindaco del paese, informando l’esercito borbonico dell’entrata di Garibaldi a Palermo, salvando così tutti, Camicie rosse e cittadinanza.

Passano vent’anni, il colonnello non li vede da allora, ma cerca continuamente i due, anche nei manicomi. Ma ben altra è la destinazione delle maschere comiche. Si trovano in una casa da gioco, dove si inventano, barando, la vita. E allora la tensione morale del colonnello, che per la presenza di quelle maschere aveva assunto maggiore intensità, oltre il suo già forte temperamento (portando Servillo ad una interpretazione di grande potenza), si tramuta in un doppio gesto. Inizia a giocare a carte, ad entrare cioè nella realtà di un intero Paese che nella simulazione ludica si ritrova, ma senza esimersi dal giudizio, nei confronti di sé stesso e del mondo. Il suo è stato un abbaglio, una illusione, quella di aver potuto immaginare quei due, la Sicilia e l’Italia tutta, altro da quello che erano. E che in definitiva sono.

Ma allora il depistaggio che opera il film è più profondo ed emerge in tutta la sua verità. L’abbaglio non è tanto un film sul Risorgimento, ma un film sulla Sicilia, sul ritorno in Sicilia; e attraverso questo un film sull’Italia.

Tutti e tre i protagonisti del film tornano in Sicilia ognuno con le sue molte, poche o nulle aspettative. In ogni caso, ciò che regge i personaggi è la polarità – tutta italiana, come ben sapeva il Leopardi de il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani – tra illusione e scetticismo; e il sentire che in fondo la matrice del secondo risiede in buona parte nella prima.

E allora, lo sguardo dall’alto del colonnello su Palermo, la sua posizione ferma e austera, il suo giudicare inaccettabile la diserzione per codardia dei due, fino a renderli invisibili cancellandoli dal registro degli arruolati, è un polo dello scetticismo, quello che attraverso l’intransigenza prova a dare consistenza all’illusione che la realtà possa corrispondere all’ideale. 

Lo sguardo invece dal basso delle due maschere, quello immerso e celato nelle cose (come quando i due arrivano a Marsala e si nascondono per codardia in un anfratto della roccia), trasforma il sentimento scettico in un’arte di inventarsi il presente alla ricerca di piccoli e grandi piaceri, come il gioco delle carte (la sequenza in cui le due maschere si rifugiano nel convento di suore), o la trasformazione della realtà più drammatica in teatro, nel simulare di essere altro.

Allora, se è vero che il sentimento scettico plasma il modo di vita italiano, e questo trova nella Sicilia una terra di elezione, il modo in cui quello scetticismo trova espressione è complesso, ed è opportuno resti tale, evitando l’assolutizzazione dell’intransigenza morale, o il truccare le carte come unica forma di vita.

Per questo, il giocare allo stesso tavolo dei tre nel finale è esemplificativo di un tenersi insieme dell’abbaglio e del trucco comico. I tre insieme, e solo insieme, danno consistenza ad un piano di realtà, definiscono la tenuta di una forma di esperienza, nell’equilibrio tra eterogenei: la simulazione e il trucco comici dei due smascherano le illusioni del colonnello; ed è solo il rigore di quest’ultimo che costringe i due a non barare, e dunque a non far perdere senso al gioco stesso, e cioè alla vita.

Riferimenti bibliografici
M. Grande, La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003.
G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano 2015.

L’abbaglio. Regia: Roberto Andò; sceneggiatura: Roberto Andò, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso; fotografia: Maurizio Calvesi; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Tommaso Ragno, Giulia Andò, Leonardo Maltese; produzione: BiBi Film, Medusa Film, Netflix, Rai Cinema, Tramp Ltd.; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 131′; anno: 2025.

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