Eurídice e Guida sono due diversissime – remissiva la prima, esuberante l’altra –, complici sorelle a Rio de Janeiro negli anni cinquanta. Guida, tornata incinta dall’Europa dopo una deludente fuga d’amore e bandita dalla casa paterna, vive arrangiandosi nei bassifondi della città; Eurídice, chinato il capo al dettato patriarcale, sposa un uomo mediocre e vede frustrato, per quanto a lungo tenacemente inseguito, il proprio sogno di pianista. E, come la vita imposta le separa da quella voluta, così sono impossibilitate a ricongiungersi se il padre cela a Eurídice il ritorno di Guida, mentre alla seconda, che scrive alla sorella lettere cariche d’ammirazione e mai consegnate, fa credere che l’altra sia musicista di successo a Vienna.
Nel film vincitore della sezione Un certain Regard a Cannes 72, La vita invisibile di Eurídice Gusmão, diretto da Karim Aïnouz, agisce lo iato insanabile di ogni melodramma. Quello tra l’individualmente desiderato e l’obbligo sociale, tra aspirazioni sublimi e prosaici doveri, tra le attese di famiglia e società e il Sé. Nel mezzo agiscono le norme, gli istituti, i divieti, che rendono invisibili nella realtà i sogni.
È un film sull’ombra – effetto, soprattutto, del dispositivo patriarcale – che priva la vita delle sue intensità, passioni, affetti, e rende invisibili l’un l’altra le sorelle, separandole, mentre ciascuna allontana dai propri sogni. Questo il dramma del film, la composizione delle sue azioni e conflitti come nel romanzo di Martha Batalha dal quale è tratto, raccontabili, dicibili.
Il mèlos che il cinema vi porta dentro, rendendo visibile – come in teatro musica e canto fanno sensibile – ciò che dramma e parola non possono dire, sono la fotografia, il décor, che fanno evidente l’“ombra” come separazione e privazione di Sé. La dicono i neri profondi della fotografia, e che sembrano inghiottire i dettagli dei corpi, l’illuminazione in chiave bassa che li cela sul piano ravvicinato o sul fondo; la dice la costruzione di quasi tutte le inquadrature, puntualmente cinte, ai lati, da muri o stipiti che per poco non nascondono Eurídice, imprigionata nella vita muliebre che le è stata decisa (e alla quale ha dovuto conformarsi doverosamente e controvoglia per compensare la fuga di Guida). A farla invisibile, decentrata dal quadro al limite del fuoricampo, sono quindi le mura domestiche.
Si disfano, si nascondono, e perdono di sostanza col tempo della vita i sogni di entrambe (la musica, l’amore), a ritmo del mèlos del fuoco morbido, della grana fotografica, dei flares azzurri sulla lente della camera. È ad alcuni film di un Douglas Sirk (al quale fanno eco anche i numerosi specchi, ulteriori prigioni ai corpi e insieme proiezione intangibile di un Sé) che certo lavoro sulle luci e i colori farebbero pensare. E non perché sia modello formale da calcare o, al più, da riutilizzare e citare con postmoderna ironia, ludica e scettica.
Al contrario, Aïnouz fa mostra di credere a quella forma: lungi dal giocare a decostruirne le convenzioni più trite, dozzinali, semplicemente le sottrae, le ignora. Allo stesso modo che spesso nega l’attesa vetta-esplosione di pathos suscettibile di trasformare una qualsiasi scena della vita di una delle due sorelle in una “scena madre” staccando sull’altra. O, all’opposto, dilatandone i ritmi (come la cacciata di Guida da casa, e come l’amplesso, la prima notte di nozze, tra Eurídice e Antenor, goffo e torrido non perché sia fremente per la passione da “prima volta”, ma semplicemente in quanto macchinale, e come lui, in fondo puer, ottuso, e per di più consumato sull’onda dell’inalazione di popper).
Il film non aggiorna, quindi, la forma, ma a suo modo e più radicalmente la ricomincia, secondo il proprio linguaggio, secondo il proprio mèlos e i propri colori che, per quanto accesi non sono comunque quelli di un Sirk. Inaciditi, infatti, o vividi fino all’eccesso (negli abiti, nelle notturne e malsane luci verdi o rosse dei bassifondi di Guida), quasi senza sfumature e sfatti dalla grana, rendono sensibile e paiono intrisi del dicembre tropicale di caldo umido in cui gran parte del film si svolge.
Mélo, quindi, che ricomincia in un’altra epoca dove può essere creduto, cioè gli anni ‘50, e anche in un altrove in cui sia credibile, e persino suonare contemporaneo, se in quel Sudamerica dove le attese sociali rendono invisibili le vite, relegando all’ombra le aspirazioni e i desideri, può leggersi anche il Brasile odierno (come del resto pare emergere più scopertamente in un epilogo ai giorni nostri, con una Eurídice anziana).
Dove sono rinati suprematismi patriarcali (oltre a quelli razziali e di classe), ferocemente maschilisti, proprio mentre il miglior cinema prodotto altrove, grossomodo negli ultimi tre anni, vedeva invece spesso al centro soggettività femminili in posizione non gregaria (Il filo nascosto; Maria Maddalena) quando non di comando per battagliera intraprendenza (Tre manifesti a Ebbing, Missouri; Capri Revolution), e tra loro sodali (L’inganno).
A queste sorelle, prese nell’ombra del loro mélo cui crediamo come qualcosa di nostro, contemporaneo, necessario, una vita non è bastata a ricongiungersi. Forse, come sembrano presagire le occhiate di Eurídice anziana, ci vuole un’eternità (ma il Cristo del Corcovado che pare fissare, è ancora e sempre di spalle, sempre troppo lontano, troppo in alto, – anche lui sgranato e nella nebbia – per essere redentore). O forse qualcosa che molto può somigliarle, e che le ha viste insieme, per tutto il tempo, che insieme ne ha rese visibili le ombrose vite montandole, raccordandole, mettendole in luce e in relazione comunque, per separate che fossero.
Riferimenti bibliografici
A. Pezzotta, a cura di, Forme del melodramma, Bulzoni, Roma 1992.
F. Jameson, Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007.