Vorrei cominciare col dire che La vergogna è un sentimento rivoluzionario di Frédéric Gros è un saggio importante per almeno due motivi. In primo luogo, è un testo scritto con uno stile brillante, che tuttavia non sacrifica nulla al rigore dell’argomentazione. In secondo luogo, riporta in auge una questione – il valore sociale, etico e perfino politico del sentimento della vergogna – aprendo nuove vie di riflessione. Come ammette l’autore nell’introduzione, non è la prima volta che la filosofia e gli studi umanistici affrontano il tema. Gros si confronta senza pedanterie con alcuni classici degli studi sulla vergogna: da Bernard Williams a Ruwen Ogien, da Eric Dodds a Ruth Benedikt. Tutti questi studiosi hanno provato a riflettere, da un punto di vista filosofico, storico o culturale, sul modo in cui la vergogna istituisce o cementa il legame comunitario e l’obbligazione reciproca fra individui. È l’obiettivo anche del saggio di Gros, almeno uno fra i principali.

La prima mossa che fa l’autore è quella di distinguersi dai suoi illustri precedenti. Una tradizione consolidata associa infatti la vergogna alle società e alle culture aristocratiche, dove vige un forte rispetto delle norme fissate da rigidi codici di comportamento, che regolano tutti gli aspetti della vita e stabiliscono precise gerarchie, assegnando ruoli ben definiti a ciascuno. Le società aristocratiche quasi sempre elevano la figura del guerriero a ideale comune, pensando l’educazione (perlopiù degli uomini) sulla base di questo modello e disegnando tutti gli altri ruoli (anche delle donne) attorno a questa figura centrale.

L’eroe omerico, il samurai giapponese, il cavaliere medievale (e di rimando la sposa, la concubina, la geisha, la dama): sono tutte figure esemplari di culture aristocratiche, in cui il sentimento prevalente di fronte all’errore e alla mancanza è appunto quello della vergogna. Secondo questa idealizzazione, il guerriero può non sentire il peso della colpa per il male compiuto, ma certamente avverte l’onta della vergogna se non riesce a portare a termine con successo la sua impresa. In queste culture la parola virtù indica ancora l’espressione di un’eccellenza, di una superiorità nell’esercizio delle armi o in qualsiasi altra attività umana.

Con un colpo da maestro, Gros ribalta la visione che associa indissolubilmente l’etica della vergogna a un mondo aristocratico e guerriero, mostrando come questo sentimento possa fondare anche una società rivoluzionaria. La maggior parte dei resoconti sulle società fondate sulla vergogna mettono infatti l’accento sugli aspetti appena ricordati: il rispetto scrupoloso delle gerarchie e dei codici di comportamento. Aggiungo di passaggio che non bisogna immaginare le società della vergogna come comunità dispotiche: anche i capi, in un contesto aristocratico, sono tenuti a osservare delle regole e a rispettare gli obblighi contratti verso i gregari, pena l’abbandono e il disprezzo: l’“aspra contesa” fra Achille e Agamennone insegna.

Ma il punto per Gros è un altro. Il sentimento della vergogna ha come portato quello di proiettare la nostra vita morale non tanto verso l’interiorità della coscienza, dove alberga invece il senso di colpa, quanto verso l’esteriorità delle relazioni e dei legami comunitari. Per questa ragione, il sentimento della vergogna può svolgere un’importante funzione di collante nel momento della fondazione di una nuova società, che rompe in modo traumatico con i valori e le istituzioni del passato. Il senso di appartenenza, e quindi l’esposizione alla possibilità della vergogna verso la comunità, sono necessari a cementare il legame fra gli attori di un processo rivoluzionario. Nelle pagine scritte da Gros sembra risuonare l’eco delle azioni degli eroi partigiani di Fenoglio, la cui visione del mondo si colloca al di là dell’ethos della vita ordinaria.

C’è però un lato oscuro della vergogna, che Gros non manca di sottolineare, anche se forse non riesce fino in fondo a giustificarlo in relazione con il suo progetto di riabilitazione etica e politica di questo sentimento. Questo lato oscuro ha a che fare con la fenomenologia della vergogna, che provo a riassumere nel modo seguente: la vergogna è un sentimento non suscettibile di elaborazione, che dipende interamente dalla riprovazione o dall’assenso della comunità. È un sentimento che si gioca tutto nell’esteriorità delle relazioni. Non lascia spazio all’elaborazione individuale del senso delle azioni compiute. La vergogna non permette di porre la domanda: perché lo hai – o l’ho, se ci si rivolge a se stessi – fatto?

All’opposto, la colpa è un sentimento suscettibile di elaborazione, perché la colpa può essere avvertita solo nella coscienza: l’autorità ha il potere di accusare solo è stata interiorizzata dal colpevole. Si può anzi dire, pensando alla psicoanalisi e alla teologia, che nessuna autorità “colpevolizzante” può esistere, sia essa l’istanza paterna del Super-Io o di Dio, se non è stata prima interiorizzata. Ma tutto ciò che è interiorizzato può essere rielaborato, criticato, trasformato. L’elaborazione del senso di colpa può condurre a una forma di redenzione secolarizzata, cioè alla liberazione dalle colpe non più riconosciute come tali: felix culpa, è il caso di dire. Quello disegnato dal senso di colpa è un percorso di consapevolezza.

Un esame comparativo della fenomenologia della vergogna con quella della colpa potrebbe riguardare anche gli aspetti socio-politici che interessano Gros. Prendiamo quelle che definirei le culture “popolari” della vergogna. In esse non è tanto quello che si fa — la virtù guerriera dell’uomo, la virtù domestica della donna – quanto quello che si è a determinare l’esperienza della vergogna. Nell’esperienza ordinaria, tuttora in diverse parti del mondo, la fonte quotidiana della vergogna proviene, elenco alcuni casi alla rinfusa: dall’essere omosessuali, madri single, donne divorziate, individui diversamente abili o affetti da disturbi psichici, membri di minoranze religiose o linguistiche e così via dicendo.

La vergogna non è generata dall’aver infranto un codice o dall’essere venuti meno a un’aspettativa di eccellenza, ma dal sostrato duro e immodificabile dell’identità personale. In questi contesti la vergogna diventa un sentimento oppressivo per il singolo e regressivo per l’intera società. Provo a concludere con un’ipotesi. È senza dubbio opportuno, come suggerisce Gros, riscoprire la portata rivoluzionaria del sentimento della vergogna, insistendo su come esso accompagni il momento epico della fondazione di un nuovo ordine sociale o di un nuovo sistema di valori. Ma è altrettanto opportuno tornare a interrogarci con spirito scevro da pregiudizi sul valore del sentimento della colpa e sulla sua capacità di strutturare categorie la responsabilità individuale e l’autonomia della coscienza, arrivando perfino ad avviare dinamiche di progresso culturale e di liberazione collettiva. Accanto alla virtù rivoluzionaria della vergogna è forse possibile riscoprire anche la virtù democratica della colpa.

Frédéric Gros, La vergogna è un sentimento rivoluzionario, Nottetempo, Milano 2023.

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