28 novembre, una sala della Triennale di Milano attigua al Teatro: un incontro. “Qual è stata la scintilla che ti ha portato a mettere in scena La vegetariana?”, chiedo a Daria Deflorian durante Sovrascrivere il già scritto, incontro in occasione dello spettacolo dal romanzo di Han Kang, diretto dalla Deflorian. La risposta è sembrata uno di quei racconti dove la realtà è così fantastica da sembrare invenzione. Nella realtà c’erano il suo spettacolo Quasi niente legato a Deserto rosso di Antonioni, c’era un’amica ex danzatrice di Pina Bausch e il consiglio di leggere La vegetariana, c’era Monica Piseddu, la Giuliana in Quasi niente: mentre Deflorian leggeva di Yeong-hye – la protagonista del romanzo di Han Kang – c’è stato subito in lei il pensiero di Monica Piseddu come interprete della “vegetariana”.
Testo.
La vegetariana è un testo profondamente teatrale ma allo stesso tempo sfugge a qualsiasi tipo di teatro. Io non volevo osservare quell’oggetto: volevo aprirlo al pubblico, percorrendo così una strada diversa rispetto a quella attraversata negli ultimi anni. Il libro di Han Kang mi ha colpita intimamente perché non l’ho compreso fino in fondo, perché è un libro infinito, perché, rileggendolo, è come se apparissero righe che nelle letture precedenti mi erano sfuggite. Ho avvertito subito che questo romanzo non poteva essere messo in scena riducendolo a una trama lineare: La vegetariana non è solo narrazione, è piuttosto un intreccio di fili e ho voluto mostrare alcuni di questi fili. Noi tutti abbiamo lavorato su come rivelare la dimensione fantasmatica, onirica. Abbiamo fatto entrare sulla scena fantasmi (Deflorian).
Tempo.
Il tempo de La vegetariana non è solo reale e portatore di realtà: senza perdere la linea temporale del racconto, abbiamo cercato di portare in scena anche le ombre. Il tempo de La vegetariana è un tempo che frana continuamente. È un tempo che fa spesso i conti con più corpi presenti contemporaneamente in uno stesso spazio e che raccontano momenti diversi: questo dà molte possibilità sulla scena (Deflorian).
Scene-spazi-colori (ROSSO).
Come scritto nella locandina, lo spettacolo è: scene dal romanzo di Han Kang. Tre scene, come tre sono le parti che compongono il romanzo e tre le differenti prospettive in gioco: del marito della vegetariana (Gabriele Portoghese), del cognato (Paolo Musio), della sorella (Deflorian), tutti trasformati, in modi e gradi di intensità differenti, da Yeong-hye, dal suo essere sempre più indicibile e inafferrabile.
Tre, diversi, sono gli spazi; tre i colori, il primo dei quali ROSSO. Questa parola proiettata in alto su una scena di silenzio, non ancora abitata, si trasforma man mano in immagini e in atmosfere emotive: anzitutto nel rosso sangue dei pezzi di carne racchiusi dentro una plastica claustrofobica che Piseddu/Yeong-hye porta dalla cucina al centro della scena. Chiude quei corpi scardinati in grandi sacchi neri della spazzatura; annuncia con questo gesto, reiterato, il suo distacco, convinto e ripetuto fino alla fine della terza scena e dell’ultimo colore, il verde, dalla carne, dalla crudeltà scritta nel suo odore e nel suo colore. Per dire usa le parole, il silenzio, soprattutto il corpo e immaginifiche dissolvenze.
Il lavoro sulla drammaturgia è stato lungo. Il punto di massima distanza dal romanzo è stato voler portare Yeong-hye sulla scena: non farla raccontare dal marito, dal cognato, dalla sorella, come accade nel romanzo, ma rendere Yeong-hye presenza che muove ogni cosa. Durante il lavoro a tavolino abbiamo tutti sentito l’urgenza di andare nello spazio, abitandolo e mettendo da parte le parole. Le improvvisazioni libere sono state molte (Deflorian).
Il primo spazio abitato è la casa di Yeong-hye e del marito. Portoghese è il primo corpo-in-scena: inizia il racconto in prima persona, un racconto su Yeong-hye ritmato da negazioni che scolpiscono, nell’immaginazione degli spettatori, un corpo-non ancora-in scena:
Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno. Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti… E quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli.
Fin dall’ingresso del marito la casa viene percepita come luogo dove la vita è e non è più.
CASA DEI CONIUGI. INTERNO NOTTE. È la prima delle didascalie – uno degli elementi cinematografici nello spettacolo – che segnano e accompagnano le trasformazioni degli spazi e dei personaggi che li vivono. Quasi tutti gli spazi sono interni: di case coniugali (di Yeong-hye; della sorella), nelle quali ha una funzione importante il bagno perché in questo spazio nello spazio è ben visibile la solitudine, la relazione mancata; di studio d’artista (del cognato di Yeong-hye); di un ospedale psichiatrico. Luoghi che sembrano semi-abbandonati e pieni di memorie, “dove la comunicazione è un’ombra di verità, dove lo stare insieme è un’ombra” (Deflorian). La scelta di Yeong-hye di non mangiare più carne, comunicata per primo al marito all’interno della loro casa, fa franare questo luogo. Ma il vuoto e le rovine de La vegetariana sono altro rispetto al paesaggio di rovine e al vuoto “occidentale“ cui la nostra cultura è abituata, ai luoghi abbandonati di Andrea Chiesi, su cui Deflorian stava inizialmente lavorando e da cui si è distaccata trovando, con Andrea Pizzalis, un altro – sorprendente – modo di dire vuoto, rovina.
Spazi-colori (VERDE).
Tutti i luoghi franano tranne uno. Il luogo dove vive il verde: la foresta dove Yeong-hye era fuggita con la sorella da bambina per sottrarsi ai soprusi violenti del padre, la foresta dove aveva di nuovo trovato riparo fuggendo dall’ospedale psichiatrico. Tra gli alberi lei, la vegetariana, sente la pioggia che scorre sul corpo, acqua che dà vita, la sola che Yeong-hye desidera, acqua che, “come quella di fiume che scorre sui sassi, toglie le asperità“ (Deflorian). “Era immobile, ferma, in piedi come se fosse lei uno di quegli alberi“: questo tempo di fuga e di vita di Yeong-hye è raccontato dalla voce di Deflorian/la sorella, anche lei per alcuni istanti tra la pioggia. Uno dei momenti più intensi di questo memorabile spettacolo.
Suono/musica.
I suoni della pioggia e poi del vento sono tra quelli che creano lo spettacolo insieme ai corpi, alle voci, agli spazi, alle luci, ai vuoti. Nella dimensione reale e onirica di questa messa in scena i suoni sono stati fondamentali: “Emanuele Pontecorvo ha lavorato tanto sui suoni, a cominciare da quelli domestici, per rendere la casa presente anche con la sua voce” (Deflorian). E fondamentale è stata la musica. Tre i brani scelti: Yesterday dei Beatles, in versione coreana, per la casa coniugale; l’inno nazionale della Corea del Sud carico di senso di obbedienza e rigore, una musica che trasmette bene il tipo di educazione rigida, algida impartita dal padre di Yeong-hye alle figlie e che fa immaginare le sue derive violente; una musica per dare il senso dello struggimento: il Chiaro di luna di Beethoven, suonato però “come se stesse piovendo” (Deflorian).
Silenzio.
Il silenzio è protagonista in momenti chiave. C’è silenzio nella scena di violenza del marito nei confronti di Yeong-hye. Piseddu ha voluto qui il silenzio perché voleva far sentire la banalità del male. C’è silenzio, con opportune variazioni, in altri momenti di violenza, subdola e strisciante, quindi silenziosa. Il silenzio è la parola di Yeong-hye: meglio, come il corpo di Yeong-hye si trasforma, staccandosi dal superfluo e dal rosso, dalla crudeltà, così le parole si trasformano in silenzio: un silenzio che parla. “Per Monica, che ha vissuto il ruolo della vegetariana stabilendo con Yeong-hye un rapporto di profonda intimità, il silenzio è stato essenziale. Da attrice le mancava questa dimensione, soprattutto in modo così totale ed è stata felice di poterla vivere sulla scena” (Deflorian).
Una macchia (AZZURRO CHIARO).
”Un petalo azzurro chiaro sul sedere” di Yeong-hye. Nella CASA DELLA SORELLA. INTERNO SERA, sentendo di questa “macchia”, il cognato prova eccitazione. MONOLOCALE DI YEONG-HYE. INTERNO GIORNO: ”Voglio dipingere dei fiori sul tuo corpo”, dice il cognato a Yeong-hye. STUDIO DEL COGNATO. INTERNO SERA. Il cognato dipinge il corpo di Yeong-hye. Quella piccola macchia mongolica ”evoca qualcosa di antico… è vegetale più che sensuale… è qualcosa di sacro”. In questa scena, meravigliosa per estetica e senso teatrale, il corpo nudo di Yeong-hye sembra risvegliarsi, ri-fiorire.
Yeong-hye.
Per Yeong-hye il sogno è una dimensione della realtà. Yeong-hye è una creatura liminale, sul filo sottile che separa “il non più e il non ancora” (Deflorian). Yeong-hye è una delle imperdonabili: ”Non riuscivo a perdonarla della sua meravigliosa irresponsabilità” (Deflorian/la sorella). È il verde di foglie fragili eppure resistenti, mosse dal soffio di un vento che fa respirare diversamente dal sangue nei corpi saturi di carne.
Riferimenti bibliografici
H. Kang, La vegetariana, Adelphi, Milano 2016.
La vegetariana. Regia: Daria Deflorian; adattamento testo: Daria Deflorian, Francesca Marciano; scenografia: Daniele Spanò; assistente: Andrea Pizzalis; costumi: Metella Raboni; illuminazione: Giulia Pastore; suono: Emanuele Pontecorvo; interpreti: Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese; produzione: INDEX in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; durata: 110′; anno: 2024.
*La foto in copertina è di Andrea Pizzalis.