Cercavo risposte a domande fondamentali. Inoltre, da lettrice, mi sono resa conto che tutti gli scrittori cercano risposte e, pur non giungendo a conclusioni, continuano a scrivere. Così ho pensato: perché non lo faccio anch'io?
Così afferma Han Kang, scrittrice sudcoreana nata a Gwangju nel 1970 e vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2024, in un’intervista rilasciata a “The Guardian” dove non solo determina gli obiettivi della sua missione di autrice, ma ritrae anche i contorni della sua struttura narrativa.
Per conoscere e carpire la potenza delle sue opere, bisogna fare un passo indietro, precisamente al 1993, anno che segna il suo debutto letterario con Seour-ui gyeoul (“Inverno a Seoul”) a cui segue, nel 1995, la raccolta di storie brevi intitolata Yeosu-ui sarang (“Amore a Yeosu”), con cui si inserisce immediatamente tra le fila di autori e autrici più promettenti del panorama letterario sudcoreano. Lo stile incisivo e particolarmente attento ai dettagli dell’opera anticipa la tagliente profondità con cui la scrittrice eviscera gli strati più profondi dell’animo e che caratterizzerà tutte le sue opere successive. Un’esplorazione, la sua, che si dispiega in storie complesse, a tratti crude e tinte di malinconia, agonia, violenza; una scrittura che riflette tanto le ombre e le luci dell’essere umano, quanto i meccanismi sociali di una contemporaneità forse ancora troppo assopita.
Pur dilettandosi tra poesia e prosa, sono i suoi romanzi e la loro carica emotiva ad averla investita del ruolo di portavoce dei tormenti esistenziali, trascesi nel connubio di fascino e controversie con cui viene accolta dalla critica, che elogia la sua abilità nel «rimuovere il velo dell’ideologia e dei grandi dibattiti di cui si era tinta la letteratura sudcoreana dopo gli anni Ottanta, rivelando a tutti l’entroterra dell’esistenza».
Così, la rosa dei suoi romanzi prospera fino a giungere al 2000, quando con la pubblicazione di Convalescenza la sua prosa si fa habitat perfetto delle sue “donne-piante” che, attraverso processi di metamorfosi dei loro corpi demoliti da una società che vuole schiacciarle, utilizzano la morte come veicolo di rinascita. Se al pubblico italiano questo titolo può risultare poco familiare, esso in realtà costituisce il corpus originario de La Vegetariana, il suo romanzo in assoluto più celebre, che le è valso innumerevoli premi, tra cui il Man Booker International Prize nel 2016.
«O forse dentro di lei accadevano delle cose, delle cose terribili, inimmaginabili per chiunque altro e, quindi, le era impossibile occuparsi contemporaneamente della vita di tutti i giorni» (Kang 2016, p. 89). Tra le sue pagine si celano la ferocia e il distacco di una società nei confronti delle voci, ancora troppo flebili e inascoltate, delle donne, accostandovi un’evidente esposizione della natura pregiudizievole dell’essere umano. In La Vegetariana, Kang traccia i contorni di un “viaggio” cruento e terribile, incomprensibile e liberatorio affrontato dalla sua protagonista, Yeong-hye, a partire dalla sua decisione di voler eliminare la carne dalla sua alimentazione, che culmina in un vero e proprio processo di metamorfosi. La narrazione polifonica si dispiega tra l’indifferenza, il disprezzo, la brama o l’apprensione dei diversi narratori che forgiano il ricco ventaglio dei tratti distintivi umani: la collera o la frustrazione provate dal marito e dal padre, accecati dall’incomprensibilità verso Yeong-hye, entrambi incapaci di immedesimarsi o di empatizzare con le sue scelte e con il suo sfrontato distacco dalle convenzionalità; il desiderio carnale del cognato, a cui viene affidato un secondo capitolo, che si tinge di ritmi lenti e sinuosi dove si scorge l’inevitabile slegarsi della protagonista dalla propria umanità, da quel suo corpo così avviluppato nelle catene del pregiudizio e dei vincoli di una società patriarcale ancora risonante dei dettami neo-confuciani dell’antico periodo Joseon (1392 – 1910); la gelosia mista al rimorso della sorella In-hye, che chiude il cerchio narrativo in un terzo e ultimo capitolo struggente, dove vengono scanditi il combattivo desiderio di liberazione e la persistente cecità degli sguardi esterni che scrutano Yeong-hye passivamente e non notano altro che un catatonico essere umano, ignorando che quello che per tutti non è altro che la fine, costituisca, per lei, un inizio.
Il ciclo di morte e rinascita partito dal Convalescenza e determinatosi in La Vegetariana, confluisce in un’altra opera del 2016: Huin (“Il Libro Bianco”), il cui titolo si investe del significato metaforico collegato al colore bianco che, in particolare nella cultura sudcoreana, è «a metà strada tra la vita e la morte» (Krys 2020), abbracciando il connubio di ricordi e lutto che l’autrice intende raccogliere e accogliere per aprire uno spiraglio sul suo vissuto personale. In questo romanzo meditativo Han Kang si scontra, infatti, con i propri fantasmi e con il bisogno di dar voce al dolore provocato dalla perdita di sua sorella, dopo aver intrapreso un viaggio in Polonia: riscoprire le tragedie della città di Varsavia e assistere al suo processo di risurrezione dalle proprie ceneri ha influenzato lo svolgimento di una vicenda raccontata con delicatezza e simmetria, accantonando, per un attimo, quei toni crudi che danno voce a una devastante e violenta verità. In Huin vi è spazio per le piccole cose, Kang si concede la possibilità di abbandonarsi alle memorie richiamate da singoli oggetti e di rannicchiarsi nella morsa della sofferenza e della bellezza, «che sembrano coesistere intensamente» (ibidem).
Un po’ come è accaduto nel romanzo intitolato Atti umani, uno straordinario resoconto del 2014 intimo e devastante del massacro di Gwangju del 1980, dove risuonano le voci di sette narratori che rappresentano l’oppressione di chi è sopravvissuto e lo sgomento di chi è morto. Quest’opera straziante e complessa, valsa a Kang il Premio Malaparte nel 2017, si nutre nuovamente del connubio tra vita e morte, abbracciando quelle che sono le memorie collettive e personali in una commistione tra passato e presente che si interscambiano, fino a dare spazio alla riconciliazione della stessa autrice che, nell’ultimo toccante capitolo, fa i conti con ricordi offuscati dal tempo, riconnettendosi con la sé bambina. «Il passato incombe, come un incubo ricorrente. Eppure, mentre scrivevo il libro, ho iniziato a sentire come se stesse accadendo proprio il contrario. Come se il passato stesse, invece, aiutando il presente» (Kang 2017).
Han Kang e la sua letteratura, fatta di complesse scomposizioni, di un linguaggio fluido e coinvolgente, di donne incomprese ed attanagliate dal peso opprimente della società, di storie vere esposte con violenta fermezza, di dolcezza e fragilità, si sono fatte strada sulla scena sudcoreana e globale con il coraggio di quella che si può definire un’“onesta narrazione”. Da caso letterario a prima scrittrice donna sudcoreana ad aver vinto il Nobel per la Letteratura, la sua scrittura non smette di trafiggere l’assente sguardo della civiltà odierna, concedendo la possibilità di esplorare le profondità dell’animo senza timore, accompagnando i lettori di tutto il mondo verso una riconciliazione con verità assordanti, specchio tanto della società sudcoreana, quanto di quelle più lontane e diverse.
Riferimenti bibliografici
H. Kang, La vegetariana, Adelphi, Milano 2016.
Id., Atti umani, Adelphi, Milano 2017.
Id., Han Kang: “Il passato ci salverà”, intervista a cura di E. Stancanelli, in “la Repubblica”, 24 settembre 2017.
Id., The White Book, Hogarth, Londra 2019.
Id., Convalescenza, Adelphi, Milano 2019.
L. Krys, Han Kang on Death, the Color White, and Her Writing Influences, in “Electric Literature”, 17 agosto 2020.