Inavvertibilmente, leggermente, forse ineffabilmente, nel nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (Quasi niente, visto per Romaeuropa al Teatro Argentina, e in scena a Parigi al Festival d’Automne di Parigi) echeggia ciò che Vladimir Jankélévitch chiama il “non so che” equiparandolo appunto al quasi niente. Per il filosofo francese termini come “ineffabile”, o appunto “je ne sais quoi”, insomma l’alone dell’indefinibile, dell’inachevé, di un incompiuto colto nell’istante stesso in cui accede alla forma, al suo limite, non hanno nulla di metafisico, anzi procedono da una decostruzione della nozione di “purezza” messa continuamente in relazione con l’impuro.
Sappiamo che per André Bazin il cinema è arte “impura”, e sappiamo che la sua lettura del cinema italiano, a partire dal neorealismo, fa risplendere ciò che nei film di Rossellini (ma anche di Antonioni) produceva una specie di epifania del reale privato dell’azione consequenziale e anzi sospeso in una decostruzione spazio-temporale in cui i personaggi fluttuano come veggenti, stanziano e si muovono errando sempre in rapporto a un punto indefinito del reale che viene in immagine attraverso la sua durata. Bazin ci dice che con il neorealismo per la prima volta l’immagine delle cose è anche quella della loro durata.
Ora, lo spettacolo magnifico di Deflorian/Tagliarini parte da una sorta di re-visione dell’antonioniano Deserto rosso, film che entra obliquamente, si insinua nella scena mediante un doppio registro. Da un lato lo “squadernamento”, come bilicante su un vuoto (lo spazio è la struttura stessa del teatro con le sue capriate, i suoi muri e ballatoi, come il rovescio del telaio di un quadro, solo solcato orizzontalmente da un velario trasparente che nel finale si “annebbia”) di un’area, come un campo di gioco posato sull’invisibile (pensiamo al finale di Blow-Up), dove i cinque attori (le tre attrici sono come l’iterazione spostata su tre età del personaggio-attrice, Giuliana-Monica Vitti, nel film di Antonioni) è come se si “palleggiassero” una serie di monologhi che, misteriosamente, li fanno dialogare a distanza, li relazionano appunto in un rilancio, sottile e leggero, giocato tanto sullo straniamento ironico quanto su una strana “furia euforica” nel muoversi tra i pochissimi oggetti-suppellettili (come prolungamenti del loro corpo e delle loro parole: un armadio privo di ante, una cassettiera, una poltrona rossa) come se danzassero i loro “leggeri stati di panico”, le impasse incompiute, le interruzioni, le inazioni.
Dall’altro le immagini di Antonioni si riversano come in un rewind mentale (gesto scenico e comportamento ricorrente nei lavori di Deflorian/Tagliarini), nell’iperfetazione verbale che tende a suturare i silenzi e insieme a dischiuderli nelle pause in cui lo spazio occupato reciprocamente e l’inazione restituita in una ineffettualità (che come nei film di Antonioni diventa concretizzazione spaziale degli stati d’animo), decostruiscono in una impurità dell’immanente il riverbero memoriale del film (impercettibilmente suscitato dal ricorrente Surf della luna scritto da Giovanni Fusco per il film).
Per tornare al quasi niente-non so che di Jankelevitch sembra che questa sorta di grazia “svanente” abbia a che fare con un inseguimento impercettibilmente irrealizzabile di una scena madre. Infatti in Antonioni alcuni momenti dei suoi film, (come i finali per esempio di L’eclisse o L’avventura, oppure la sospensione favolistica dell’isola di Budelli in Deserto rosso), sono appunto uno svuotamento ineffettuale eppure pieno di sublime “non so che”, di un quasi essenziale, di ciò che è insitamente melodrammatico, e come “tagliato” con qualcosa tra il fantascientifico o al limite il comico-irreale (non a caso la partita a tennis con la pallina invisibile che chiude Blow-Up può essere allineata ad alcune scene di Keaton o Tati, e non a caso Antonioni amava molto il finale claustrofobico del “palleggio” di Carlo Verdone in Viaggi di nozze). A tal proposito Cappabianca, Silva e Mancini in un libro fondamentale come La costruzione del labirinto si riferiscono anche agli spazi-isola di Antonioni parlando di una specie di “messa in parentesi” della “scena madre”, aperta (come anche in Godard) all’irruzione dell’imprevisto, del quotidiano e casuale.
L’importante, la caratteristica fondante è che si tratti d’uno spazio all’interno del quale sia possibile compiere tutta una serie di scelte secondarie e specifiche che non esulino dal contesto generale, ma ne tengano necessariamente conto, quale che sia il loro svolgimento, attraverso il montaggio esterno, interno (pianosequenza) o anche tramite il movimento interno all’inquadratura fissa. […]L’inquadratura infatti non è il fotogramma, ma una serie di fotogrammi, identici magari nell’immagine e nel suono, eppure diversi l’uno dall’altro, nella loro interferenza temporale, nella loro prossima differenza: “L’Azur! L’Azur! L’Azur!L’Azur!” (Cappabianca, Silva, Mancini, 1974).
Antonioni voleva intitolare Azzurro e verde il suo film e dipinse materialmente con questi colori (come in un pittorico lavoro tra materia/figura e sfondo, idea analoga a quella del ciclo teatrale Il cielo non è un fondale di Deflorian/Taglarini), intervenendo appunto in funzione differenziale rispetto al fotogramma, la frutta su un carretto. Un modo per decostruire l’enigma del reale, della sua percezione. Ecco, la de-costruzione di Quasi niente è come inserita alla “seconda potenza” e l’interferenza tra scena/inquadratura, spazio squadernato del teatro entro cui le entrate-uscite di scena si dispongono al di qua e al di là di uno schermo-cesura in cui gli sguardi appunto si rifrangono e si palleggiano (e si occupa reciprocamente un punto dello spazio: “a volte si fissa un punto” diceva Antonioni, titolando così una sua mostra di dipinti-paesaggi), si fa interscambio continuo tra film e spostamento scenico, lavorando come su “tagli” fotogrammatici en plein lumière. Ritorna in mente ciò che Deleuze scriveva degli “spazi scivolanti”, slittanti, fagocitanti, imbricati del musical americano (la astrazione sospesa e “autunnale” di certi musical, per esempio in Donen, l’impasse delle scene di danza che vanno alla deriva, doveva essere anche quella molto amata da Antonioni). Un critico imprescindibile (e dimenticato) come Enzo Ungari scriveva che:
I film di Antonioni, che aspirano forse ad essere enigmi insolubili per la logica dello spettatore, finiscono per assomigliare a dei rebus di cui si può venire a capo, seguendo il tracciato giusto. Deserto rosso, sfuggendo a questa casistica, ne metteva in luce la contraddizione, lasciava spazio al mistero e al sogno, suggeriva su un piano più immaginario l’eco dei giochi filosofici dei film precedenti (Ungari 1978).
In questo senso ciò che di enigmatico emerge dal quotidiano degli stati enunciati e vissuti in scena nello spettacolo, non può essere giocato (persino nelle sue derive nevrotiche o depressive) se non con la leggerezza di una sorta di musical leggermente disperato. Questa la ragione per cui in più di un punto la terza Giuliana, la più giovane (Francesca Cuttica) si mette a cantare. Sono canzoni che hanno il sapore sospeso e anacronico di stati d’animo espressi con una specie di slittamento che attinge (proprio come nei musical) solo alla dimensione ineffabile e inattiva del sentimento della scena. È ciò che Janacek e Jankelevich sostenevano: quando la parola manca comincia la musica, dove le parole scompaiono l’uomo non può che cantare. Si potrebbe dire anche non può che guardare.
E in questo senso la strabiliante capacità di far depositare nello sguardo le parole che piano piano dileguano di una attrice-autrice come Daria Deflorian, oppure la roca e stupefacente disposizione ad “inghiottire” e insieme “espellere” spezzettandole le battute memori della Vitti, da parte di Monica Piseddu, come i passi insieme spezzati o meditanti, scartati e “sbalorditi di se” di Antonio Tagliarini e le assorte, nervose irruzioni d’un tratto sospese di Benno Steinegger, insomma tutto il gioco che passeggia sul filo del “non so che e del quasi niente”, che si sprigiona, scivola nelle luci scoloranti e diafane di Gianni Staropoli, si assorbe e si restituisce in un impercettibile rumore del silenzio, in una specie di invito a guardare e guardarsi nell’enigma della durata vitale delle cose. Del resto Giuliana dice: “Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?”.
Riferimenti bibliografici
A. Cappabianca, M. Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto, Gabriele Mazzotta editore, Milano 1974.
E. Ungari, Schermo delle mie brame, Vallecchi, Firenze 1978.
V. Jankélévitch, Il non so che e il quasi niente, Einaudi, Torino 2011.
*L’immagine presente nell’articolo è una foto di Claudia Pajewski.