Per quanto il capitalismo sia il sistema economico dominante del mondo globalizzato, i primi due cicli di episodi di Squid Game lo hanno sempre filtrato attraverso una prospettiva autoctona e locale, quasi come se a Hwang Dong-hyuk, regista e creatore della serie, interessasse raccontare l’universale – ciò che riguarda ognuno di noi – attraverso il particolare. Le enormi disuguaglianze che il mercato è arrivato a creare nei paesi altamente industrializzati, creando delle voragini esistenziali ed emotive nelle vite dei subalterni e di tutti coloro che non riescono di volta in volta a fregiarsi dei benefici del sistema, hanno presentato agli occhi dell’autore sudcoreano un terreno fertile su cui sedimentare un racconto altamente polemico, destinato a scardinare le diaboliche conseguenze che l’iper-competitività del mercato capitalistico della Corea del Sud ha generato per gli abitanti della sezione meridionale della penisola, fino a problematizzarle attraverso i linguaggi di genere.
Da questo punto di vista i codici del survival horror, perlopiù mutuati da opere culturalmente affini come Battle Royale (2000) e As the Gods Will (2014), si sono caricati, almeno nei primissimi cicli di episodi, di una valenza puramente sociologica. Ogni azione avanzata dai giocatori-vittime all’interno della sanguinaria competizione, ogni sfida o gioco mortale congegnato dal Front Man (Lee Byung-hun) per soddisfare le esigenze sadistiche di una manciata di potenti, era funzionale a raccontare sì le insicurezze e le fragilità della working-class locale ma, in particolar modo, era improntato a delineare la mappa esistenziale degli “ultimi”: le condizioni avvilenti e disumane a cui il capitalismo – e non lo Squid Game – li ha assoggettati nella loro misera quotidianità. Ecco allora che la lotta per la sopravvivenza, la necessità di prevalere sull’altro anche al costo di sacrificare la propria integrità morale, diventava lo strumento ideale per scandagliare polemicamente le logiche capitalistiche della società sudcoreana: l’assenza di uno spirito comunitario in un paese che, almeno nella sua forma mentis, avrebbe dovuto preservare una vocazione collettivista, ormai dispersa sull’altare del competitivismo.
Tutte queste istanze, come era lecito aspettarsi, acquisiscono nuovamente vigore nel terzo ciclo di episodi della popolare serie Netflix: eppure, nel momento in cui la storia inizia a dirigersi verso la sua conclusione, ecco che il racconto si innerva di un afflato diverso, forse anche più umanista – e perciò meno oltranzista. E lo si percepisce sin dall’incipit. La terza stagione, da intendere come mera continuazione degli eventi su cui si era concluso il precedente (e deliberatamente tronco) corpus di puntate, prende le mosse a partire dal “tradimento” del Front Man ai danni di Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) e dal fallimento colossale della rivolta organizzata dal protagonista. Agli occhi del giocatore 456, infatti, la manipolazione a cui lo ha sottoposto il villain lungo la sua seconda campagna all’interno dello Squid Game è percepita come un punto di non ritorno, alla pari di una brutale ed irreversibile “sveglia”. La possibilità di scardinare il sistema attraverso il sabotaggio interno dei vari game appare ormai chimerica. Ogni aspirazione anarchica che aveva cullato Gi-hun, sin dal momento in cui aveva completato per la prima volta il gioco, è destinata a perire, proprio come i giocatori che si accingono a superare le sfide survivalistiche.
Non è un caso, perciò, che per buona parte dei giochi conclusivi, l’uomo appaia svuotato, quasi avesse deciso di abbandonare quell’estrema ed apparentemente incancellabile vitalità che lo contraddistingue(va), una volta compresa l’inutilità delle sue azioni/idee rivoluzionarie. I “potenti”, sembrerebbe suggerire Gi-hun, hanno definitivamente vinto: non esiste una vera alternativa allo status quo corrente. E allora cosa resta da fare in un contesto così diabolicamente immutabile? Qual è l’unico messaggio che merita di essere lanciato, anche in faccia ad un mondo che non ha alcun desiderio di porre al centro del suo sistema l’individuo e la sua sfera morale? La risposta è la più semplice e virtuosa possibile: la preservazione/validazione della singolarità della persona.
«Noi non siamo cavalli, ma esseri umani». È con questa frase, pronunciata da Gi-hun poco prima di compiere il suo sacrificio finale, che la terza stagione di Squid Game non solo porta a sublimazione i discorsi avanzati nel corso dei precedenti cicli narrativi, ma con cui li traghetta verso un orizzonte di globalità. Ad essere messa in questione adesso non è “solamente” la condizione di subalternità in cui (soprav)vivono i cittadini delle fasce meno abbienti della società sudcoreana: è la condizione umana tout court. Non sorprende perciò che nelle ultimissime sfide, a ridestare la coscienza del protagonista, sollevando i temi cardinali attorno a cui ruota l’epilogo del racconto, sia proprio la nascita di una nuova vita in un contesto che nega le premesse stesse su cui si fonda il contratto sociale. I giochi sanguinari, organizzati per il piacere di un gruppetto di esponenti della classe privilegiata (qui finalmente “rivelati” per ciò che sono) portano ora Gi-hun ad interrogarsi sul “significato di essere umani” all’interno di un sistema che inibisce la sfera morale o etica dell’individuo e le sue capacità di provare ancora una parvenza di empatia verso l’altro.
E per quanto tutti i personaggi continuino ostinatamente a rispondere alle esigenze del survival horror, rinunciando a qualsiasi moralità per inseguire la (flebile) fiamma della sopravvivenza, è pur vero che Hwang Dong-hyuk assegna al suo protagonista una missione di segno differente. Ora Gi-hun non è più il messia odierno che cerca, in ogni modo, di condurre i suoi pari verso la ragione o di spezzare la catena del sangue a cui li hanno assoggettati i creatori dello Squid Game. Per nulla. Le azioni in cui si profonde, non appena la giovanissima madre Jun-hee (Jo Yu-ri) gli affida il compito di proteggere la figlia appena nata, manifestano uno slancio di umanità inatteso, di cui non si registrano eguali nei precedenti cicli stagionali, e che solo adesso può occupare il centro della narrazione, dal momento che il racconto del capitalismo non è più filtrato in termini prettamente autoctoni, ma universali. Un ecumenismo che in Squid Game 3 non si esaurisce, a ben vedere, nel solo livello drammaturgico.
La stessa coda finale sembra rappresentare, da tale punto di vista, una potente dichiarazione d’intenti: sia sulle riflessioni avanzate sin dall’incipit dalla serie (ormai tarata su istanze di matrice appunto universaliste) sia sulle metodologie produttive che accompagnano un testo industriale – ed emblematicamente “aziendalista” – qual è Squid Game. Al termine del gioco, dopo che il Front Man ha consegnato il “premio” del giocatore 456 alla figlia di stanza a Los Angeles, assistiamo al fugace incontro tra il villain e una reclutatrice americana, impegnata ad arruolare dei potenziali candidati per la versione a stelle e strisce del diabolico gioco (non più solo) sudcoreano. Il dado è ormai tratto, e seppur nel paese estremo-orientale l’esperienza dello Squid Game sia giunta a conclusione, lo stesso non lo si può affermare per il resto delle nazioni industrializzate. Le condizioni socio-economiche del capitalismo sono replicabili ovunque, e di conseguenza anche il progetto precedentemente guidato dai coreani (riflesso dell’ipercompetitività del sistema economico vigente) può essere esportato all’estero, e divenire così internazionale.
E in tal senso, proprio il cameo di Cate Blanchett nelle vesti della reclutatrice sembra aggiungere un’ulteriore sfumatura alle aspirazioni globaliste che attraversano quest’ultimo corpus di episodi, oltre a suggellare le nuove dinamiche industriali attorno a cui sta sempre più convergendo il settore dell’audiovisivo. Prima che il mondo dell’entertainment fosse travolto dal fenomeno Marvel, gli annunci di casting, soprattutto quelli concernenti le grandi star del firmamento hollywoodiano, erano affidati agli uffici stampa o alle principali riviste di cinema. Ora, specialmente in contesti relativi ai cosiddetti “universi condivisi”, la scritturazione di un’attrice di grande richiamo popolare per spin-off, sequel o opere collaterali al testo-ammiraglio, può anche essere comunicata intradiegeticamente, ovvero all’interno dello stesso mondo narrativo in cui si muove un racconto.
Ed ecco che la comparsa (o meglio, l’apparizione quasi epifanica) sul finale di Squid Game 3 di una delle dive più culturalmente legittimate a livello globale contribuisce a scrivere, già di per sé, il futuro di quello che ora, da prodotto inizialmente di nicchia tarato su una platea di spettatori locali, è diventato a tutti gli effetti un franchise internazionale. A testimonianza di quanto Hwang Dong-hyuk sia stato qui in grado di coniugare le derive umaniste (e quindi ecumeniche) verso cui si è diretto il percorso narrativo di Gi-hun con le traiettorie produttive mediante le quali Netflix sta espandendo, ben oltre i confini della Corea del Sud, l’universo creato dall’autore estremo-orientale. Istanze che sembrano già di per sé rendere la versione statunitense di Squid Game (la cui direzione dovrebbe essere affidata a Fincher) il riflesso e specchio naturale della sua controparte coreana, nonché delle esigenze universaliste e anticapitalistiche su cui è nata e si è sviluppata nel tempo.
Squid Game. Ideatore: Hwang Dong-hyuk; regia: Hwang Dong-hyuk; interpreti: Lee Jung-jae, Lee Byung-hun, Im Si-wan, Kang Ha-neul, Wi Ha-joon, Park Gyu-young, Lee Jin-wook, Park Sung-hoon, Yang Dong-geun, Kang Ae-shim, Jo Yu-ri; produzione: Firstman Studio; distribuzione: Netflix; origine: Corea del Sud; anno: 2025.