Il lungometraggio di Claudio Cupellini, La terra dei figli, liberamente ispirato al testo omonimo di graphic novel di Gipi, ci getta sin dalle prime inquadrature in una “terra desolata”, contaminata da veleni che hanno desertificato la natura, l’abitare, la parola, la memoria e hanno reso l’incontro con l’alterità un continuo violento scontro per la propria sopravvivenza, rendendo l’esistere una condizione disumana. La prima inquadratura del film mostra in campo lungo una spiaggia che lambisce un lago, con un  cane che in lontananza cerca qualche resto con cui sfamarsi. Udiamo i suoni delle onde che si rifrangono sulla riva. Questa immagine segnala sin dall’incipit come il paesaggio all’interno della narrazione non sia scenario inerte ma, quasi alla stregua di un personaggio, rappresenti una sorta di eco evocativa dell’universo distopico in cui man mano ci inoltreremo. Il giovane protagonista (Leon de la Vallée), nell’inquadratura successiva, steso sull’arenile, immobile, apre un occhio scorgendo l’animale affamato con cui inizia una selvaggia lotta corpo a corpo che lo vedrà vincente, trafiggendolo con un pugnale. Una musica dai timbri metallici che si espande per fasce sonore ci accompagna alla presentazione del titolo del film.

In questo inizio sono presenti temi e forme che ritroveremo nel corso della storia che, pur riprendendo in buona parte lo scheletro narrativo di Gipi, se ne discosta in alcuni punti. Una natura contaminata da veleni, densamente popolata dalla morte per cui alberi e arbusti appaiono scheletri privi di vita mentre l’acqua cela nel suo fondo cadaveri, viene al contempo ripresa con uno sguardo che permette di farne affiorare, al di là della sua minacciosità, una forza espressiva esaltata dalla materialità dei luoghi scelti, ovvero quell’universo liminare tra terra e acqua rappresentato dal delta del Po. I campi lunghi e lunghissimi che costellano il registro visivo si alternano a riprese molto prossime a corpi e volti, per mostrare il conflitto fisico e materiale con elementi di un mondo espropriato da ogni barlume di sentimento e di affettività. L’occhio del protagonista inquadrato in primissimo piano, volto a cogliere istantaneamente il pericolo, si carica di valore segnico anticipando come il tema dello sguardo percorra in filigrana traiettorie significative.

Una didascalia precedente all’inquadratura iniziale, estratta dal racconto di Gipi, ci aveva introdotto a uno dei punti focali di La terra dei figli: «Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di Storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più». Da questo esergo comprendiamo sin da subito che la storia a cui assistiamo narra di un mondo privo di una dimensione simbolica, un mondo prossimo a quel reale delineato dalla psicoanalisi lacaniana, un mondo in cui la parola ha perso il suo peso, in cui lo scambio tra umani è appiattito su una aspra negoziazione tra oggetti e cose legate alla sopravvivenza. Un particolare significativo al riguardo colpisce: il protagonista è privo di nome proprio, dal momento che il padre (Paolo Pietrobon) per educarlo alla propria sopravvivenza lo chiama Figlio, avendogli così sottratto quel ventaglio di desideri, di aspettative, di auspici che connotano la venuta al mondo di un piccolo essere e che trovano felice condensazione nella scelta del nome proprio da parte dei genitori. E la scrittura, la scrittura di un diario che il padre del protagonista, sopravvissuto alla moglie, traccia sino alla propria fine su un quaderno, per far rivivere la memoria del prima, ormai totalmente cancellata da un mondo deserto di parole e di ricordi, rappresenta l’unico schermo volto a velare l’orrore del reale. Schermo che, nel corso del film, si fa agente attivo di un processo di cambiamento e di formazione per il figlio.

Nella prima parte vediamo il padre proibire al ragazzo analfabeta di accostarsi alla sua pratica di scrittura, anche se il giovane lo spia di notte mentre lui è intento a rintracciare e ricomporre ciò che prima del disastro regolava gesti, affetti, sentimenti, relazioni. Come riveleranno le parole impresse nel quaderno che udiremo lette dal boia (Valerio Mastandrea) alla fine del percorso di Figlio per salvare e decriptare il diario, il genitore l’ha cresciuto lasciandolo ignaro del passato, forgiando la sua personalità in un rapporto diretto con la crudeltà di quel mondo, privandolo intenzionalmente di sentimenti, e di affetti. Lo ha così reso pronto ad affrontare una realtà ostile e di disperante solitudine in cui non è possibile lasciarsi andare al pianto quale manifestazione del proprio dolore e in cui, per sopravvivere, è necessario esercitare una continua violenza. Dopo la morte del padre, Figlio varca la soglia che divide il territorio circoscritto del lago dove è cresciuto per affrontare l’ignoto di un esterno pieno di tranelli e pericoli al fine di raggiungere qualcuno che possa leggergli le parole trascritte dal padre, convinto che quel quaderno custodisca il senso più profondo e mai rivelato del genitore. Un uomo diverso da quello che gli apparirà nel corso di un sogno in cui nel fondo del lago, sdoppiato in due immagini speculari, il genitore si manifesta nella figurazione più dura dell’aggressivo rimprovero, tratti di lui che hanno connotato la formazione e la crescita del ragazzo.

Il diario allora, da oggetto, da pura cosa, si fa agente di cambiamento, nella sua enigmaticità genera una spinta propositiva verso un percorso di formazione che consente al protagonista di circoscrivere l’orrore del reale per aprire a un altro universo. Un universo in cui sia possibile, come avverrà alla fine del film, manifestare il proprio sentire, poter toccare e abbracciare una alterità, quella di Maria (Maria Roveran), a cui si è unito durante la sua ricerca, e credere persino in un futuro in cui ricominciare a generare rispetto a un mondo corroso da veleni dove i figli sono stati totalmente annientati appena nati. Rispetto alla narrazione di Gipi che vedeva in azione due figli, Cupellini concentra il racconto su un unico protagonista in modo da accentuare il senso di isolamento e di fragilità vissuto dal giovane. E se Maria, liberata da una gabbia in cui è stata rinchiusa e trattata alla stregua di un animale, rappresenta la possibilità dell’incontro con un essere con cui condividere la fase aurorale di un legame che implica vicinanza, un’altra figura di donna, la Strega (Valeria Golino), nella prima parte del film aveva manifestato la capacità di custodire all’interno di se stessa un sentire ancora toccato dal simbolico.

Cieca a causa dei veleni conserva nella sua palafitta oggetti “desueti”, come una scatola vuota di biscotti, segni di un passato che non è da sotterrare ma il cui ricordo è da preservare. Si concede anche di piangere alla notizia della morte del padre verso cui provava affetto, nonostante Figlio le dica che il genitore gli imponesse di non piangere. Alla domanda a lei rivolta da Figlio su ciò a cui serva il quaderno risponde che è utile per disegnare, per scrivere le parole, i ricordi, facendo intravvedere al ragazzo un orizzonte aperto a un sentire pulsionale, affettivo, a un paesaggio psichico interiore. Figlio le chiede di toccare il quaderno nella speranza che possa decriptarne le parole e Cupellini inquadra in primo piano le mani che accarezzano la scrittura, come se dalla materialità fisica della grafia emanasse per lei un contatto simbolico con il ricordo dell’uomo che la sollevi dal dolore della perdita. Ma per leggere servono gli occhi, lei replica al giovane deluso. E i suoi occhi non sono più in grado. Eppure proprio quegli organi la cui visione è stata azzerata dai veleni, si staccano da una vettorizzazione materiale per aprire a uno sguardo che è in grado di guardare oltre, di cogliere la verità soggettiva oltre il registro dell’attuale, di far vivere la potenza e la forza psichica dei ricordi, di continuare a sentire al di là della corrosione di un mondo degradato.

Molteplici dispositivi visivi puntellano la narrazione: vanamente Figlio riporrà negli occhiali indossati dal padre nell’atto di scrivere la speranza di poter leggere, con l’illusione che magicamente le lenti possano divenire un dispositivo rivelativo. Il boia, che salverà il protagonista identificandosi con le parole trascritte nel diario, indossa una maschera subacquea dalle lenti frantumate. E ritornando alla figura della Strega, la scorgiamo tastare le bacche appese ai rami di un albero e nutrirsi di esse: quel gesto non corrisponde solo a una necessità fisica di sostentamento, risponde piuttosto a un suo modo di esistere; abbraccia e accarezza il volto di Figlio, poco prima di aprire l’accesso per uscire dalla barriera che circoscrive la zona del lago e, pur preoccupata per ciò che di pericoloso può attenderlo all’esterno, lo lascia andare comprendendo il suo desiderio.

Differentemente da lei gli occhi feriti dai veleni di un altro personaggio, Aringo (Fabrizio Ferracane), permangono opachi e ostili, volti a catturare con rapace violenza tutto ciò che può afferrare e possedere per vivere in un prepotente conflitto con gli altri esseri umani. Figlio lo ucciderà sospingendo il suo corpo a lungo nell’acqua, erroneamente convinto sia responsabile della morte del padre. L’acqua da elemento di vita in questo universo distopico è contiguo alla morte: nell’incipit assistiamo al violento combattimento del protagonista con il cane in un arenile in prossimità del lago, dal fondo acquoso nel momento in cui Figlio lancia due bombe a mano nella speranza di far affiorare dei pesci emerge una moltitudine di cadaveri, sempre nel lago il protagonista farà affondare il cadavere del padre per poi sognarlo nel suo infierire su di lui. Solo nell’ultima sequenza del film l’acqua non è più filmata con i colori spenti dai toni grigi che abbiamo osservato nel corso della narrazione ma, limpida e toccata dai riflessi di una luce ora schiarita, incornicia l’abbraccio del protagonista con Maria, apertura aurorale a un’altra vita.

La fotografia plumbea con cui il paesaggio del Delta mostra il suo volto bifronte di orrore e parimenti di innegabile fascino, l’uso del sonoro in presa diretta volto a catturare anche minimi rumori, le ellissi che rendono la narrazione, anche se ricca di eventi, priva di ridondanze, la percezione del senso fisico del tempo espresso nella sua durata, l’attenzione della macchina da presa diretta a catturare gesti, posture dei corpi, movimenti concitati e violenti mai asserviti a un uso spettacolare, disegnano uno stile del tutto personale di Cupellini. Sebbene, a volte, accostato ad altri film, romanzi o serie televisive come quella di Ammaniti, Anna, il piacere estetico da me provato durante la visione del film mi ha ricondotto mentalmente, pur considerando la presenza di modelli espressivi differenti, alla desertificazione di ogni brandello di umanità rappresentato da Michael Haneke in Il tempo dei lupi, o alla disperante solitudine dei protagonisti in La vergogna di Ingmar Bergman. Ma differentemente dai due lungometraggi citati, nella sequenza finale Cupellini ci fa intravedere una feritoia attraverso cui sporgere il nostro sguardo per rintracciare come la maschera oscena del reale possa essere circoscritta dalla necessaria permanenza di una dimensione simbolica, che ci aiuti a essere toccati dal sentire.

La terra dei figli. Regia: Claudio Cupellini; sceneggiatura: Claudio Cupellini, Guido Iuculano, Filippo Gravino; fotografia: Gergely Pohárnok; montaggio: Giuseppe Trepiccione; interpreti: Leon de la Vallée, Paolo Pierobon, Maria Roveran, Fabrizio Ferracane, Maurizio Donadoni, Franco Ravera, Valerio Mastandrea, Valeria Golino, Alessandro Tedeschi; produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Wy Productions; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; anno: 2021; durata: 120’.

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