«Una strana risoluzione maturava in me lentamente: mai più politica! Naturalmente avrei dovuto decidere tutt’altro».
Quasi un proclama, questo di Bergman. Urlato però in privato, messo nero su bianco non sul manifesto di un corteo, ma in un’autobiografia. La «strana risoluzione» matura in Ingmar Bergman dopo la diffusione delle testimonianze dei campi di concentramento, con un senso di disprezzo verso se stesso per aver in gioventù condiviso un ingenuo entusiasmo per il nazismo. È a suo modo la protesta di chi non vuol farsi complice di schieramenti nefasti, d’una politica che degenera in senso antiumanitario e autoritario. Forse proprio perché degli uomini e della loro vita politica si ha un’idea alta, accade di isolarsene, ma spesso si deve «decidere tutt’altro».
Nel ‘68, di Bergman escono due film, L’ora del lupo e La vergogna, che non sembrerebbero particolarmente marcati dal clima della contestazione, né rappresentativi dell’imagerie legata ai movimenti. Gli spettri delle proteste si aggirano invece evidenti per altri film del periodo che, nelle immagini più “iconiche” della contestazione e dei suoi umori, partecipano e creano del movimento a propria volta.
Eppure, se L’ora del lupo è il film in cui, con gli incubi del protagonista, si dice che un uomo è anche i suoi demoni e non ha quindi una sola dimensione; se è il successivo Il rito (1969) a contestare direttamente la repressione censoria dell’arte accusata di oscenità; se invece con Persona (1966) il regista aveva già raggiunto il vertice più avanzato (rivoluzionario?) della sua ricerca formale sull’immagine, La vergogna è il film di Bergman in cui sguardo e discorso politico emergono con più forza ed evidenza. In questo senso La vergogna rappresenta in qualche modo un unicum nella filmografia bergmaniana, altrimenti non segnata da motivi chiaramente politici.
Un’isola, infatti, è lo scenario del film. Jan (Max von Sydow) ed Eva (Liv Ullmann) sono due ex musicisti che vivono appartati, dediti alla cura di piante in serra e commercio di frutta. Ma è in corso una guerra e se ne trovano improvvisamente coinvolti: gli aerei che sorvolano la loro abitazione, le bombe che esplodono nelle vicinanze, l’arresto per sospetto collaborazionismo con l’esercito nemico, minacce incombenti e sempre più forti, li vedono trasformarsi anche brutalmente per fronteggiare gli effetti del conflitto.
L’insularità dell’ambientazione, dei protagonisti, del film stesso come l’unico fortemente politico di Bergman, è condivisa anche dalla biografia del regista, che della stessa isola di Fårö aveva fatto abitazione e numerosi altri set, e in parte dalla Svezia nello scenario della contestazione. Non è infatti teatro di proteste paragonabili per intensità a quelle di altri luoghi caldi del movimento, ma non erano mancate manifestazioni e occupazioni universitarie (Stoccolma a fine maggio, poco dopo l’esplosione parigina), né il dibattito pubblico sulle più brucianti questioni internazionali: la guerra in Vietnam in testa, e a proposito della quale il regista veniva accusato di mantenere una posizione ambigua, se non addirittura filoamericana.
Ecco allora che a un film tutto di incubi individuali come L’ora del lupo, succede quello collettivo basato sulla guerra. A Bergman non interessa fare un film propriamente bellico, quanto sulla guerra e i suoi effetti, tra cui la vergogna che può insorgere nel momento in cui l’agire si fa sempre meno umano. Tale corruzione dell’umano appare evidente soprattutto nella trasformazione di Jan. All’inizio è un mite, pavido, malato di cuore e meno vitale della moglie, che manifesta una tempra più decisa, anche altruistica: sotto i raid aerei, è lei a fargli quasi scudo col corpo. L’uomo però in seguito viene contagiato dalla violenza arrivando a uccidere ed è Eva, annichilita, che sembra poi servilmente dipendere da lui, improvvisamente determinato e glaciale nella lotta per la sopravvivenza.
Mostrando tale processo in tutto il suo orrore, l’insulare Bergman prende posizione politica, schierata in senso non ideologico, ma pacifista – e in questo senso in sintonia con gli umori del movimento coevo –, contro ogni conflitto mostrandone uno assoluto, ovunque possibile (l’opinione pubblica nel ’68, non può però non proiettarvi il Vietnam). È a tutti gli effetti una protesta contro l’imbarbarimento dell’umano. Se è questo ad essere in gioco, al regista è impossibile mantenersi insulare. Bergman sembra qui dire, coerentemente con una poetica che vede l’amore umano come unico possibile segno del divino, che proprio nell’isolamento da una comunità umana più facilmente può instillarsi il germe della violenza collettiva. Del resto, non tormentavano i demoni de L’ora del lupo l’artista solipsistico su un’isola?
In questo senso, l’individualismo crudele di Jan nell’ultima parte del film è in fondo una diversa direzione dell’egoismo prima solo codardo, ma già insulare e antiumanitario, per quanto innocente: è solo Eva a preoccuparsi del paracadutista lanciatosi poco distante dalla loro abitazione, a corrergli incontro mentre Jan vorrebbe trattenerla. L’agire di lei è già politico, già pubblico e si declina, privo di strutture ideologiche, nella sua forma più immediata: il sentirsi chiamata a rispondere, essere responsabile, di quel che osserva. Vedere qualcosa accadere è per lei prefigurazione di un suo agire in relazione a qualcuno (politico, quindi), e dell’assunzione di un impegno verso i propri simili qui ed ora. È ancora Eva a manifestare un pensiero sul punto limite del pervertimento dell’umano: “Cosa sarà di noi se non riusciamo più a parlarci?”, quasi soglia dove ci si dovrebbe vergognare di ciò che si è diventati. C’è poi un’altra battuta di lei in cui la vergogna è nominata esplicitamente: “Certe volte mi sembra che sia tutto un sogno, ma quello di un altro, e del quale io faccio parte. Che cosa avverrà quando chi ci ha sognato si sveglierà e si vergognerà del suo sogno?”.
La messa a nudo che implica la vergogna si lega a una dimensione dell’interiorità, quella onirica, tanto ricorrente nelle opere del regista, e il film inizia e finisce proprio con il racconto di un sogno, rispettivamente di lui e di lei. L’accento è quindi posto sullo scrutarsi dell’uomo. Proprio a proposito dell’esposizione di umanità e intimità allo sguardo pubblico, la dimensione politica del film si carica di una maggiore tensione critica.
Una panoramica dall’interno della casa dei protagonisti guarda con loro, attraverso le finestre, un manipolo di soldati che cattura il sindaco collaborazionista Jacobi (Gunnar Björnstrand), poco dopo che Jan l’ha spiato (ancora dalla finestra) appartato con Eva. Entrambi i momenti, tra altri, testimoniano l’oscenità del guardare e insieme l’impossibilità di chiudere gli occhi, di essere isola quando la dimensione intima è stata compromessa. Eva era stata, del resto, intervistata a sopresa dopo un raid aereo da un soldato-reporter, dichiarando di non avere alcuna idea politica, ma le sue risposte venivano poi alterate al montaggio con finalità di propaganda. Di fatto Bergman sembra così anticipare molti discorsi a venire su strumentalizzazione e manipolazione delle immagini, sulla loro capacità di attestazione della violenza senza farsi retorica o spettacolo. Non è casuale, quindi, che quando i protagonisti vengono trattenuti per un interrogatorio tra tanti altri sospettati, in un momento in cui la dimensione intima-domestica è venuta meno e la collettività non è che un ammasso disordinato, al pari dei cadaveri che letteralmente riempiono le strade o il mare, il montaggio si faccia di colpo scattoso, e i movimenti di macchina a mano (rara, in Bergman) restituiscano un affastellarsi di corpi, nuche, improvvisi sbalzi di luminosità che riecheggiano la forma di certo reportage.
Si viene qui interpellati, quasi, come spettatori avvezzi al servizio televisivo (e oggi, al video sul web), e insorge il dubbio se le immagini possano bastare a rendere conto di quanto accade, e se non occorra anche qui prendersi un’altra responsabilità: guardare criticamente. Critica è anche l’immagine degli uomini di potere, connotati negativamente: la polizia, mossa dalla sola volontà di trovare spie, non esita a pestare gli interrogati. L’autorità costituita manipola i cittadini come aveva fatto col filmato di Eva alterato al montaggio, e si mostra poi ipocritamente magnanima: quasi in una suggestione dostoevskijana, un gruppo di condannati a morte, appena prima della fucilazione, vede commutare la propria pena in lavori forzati.
In definitiva, Bergman, al pari della sua protagonista, fa politico il proprio sguardo, il suo mezzo-cinema, portandolo a misurarsi con la forma delle immagini di cronaca (o di certo cinema verité) dell’epoca. Il suo discorso politico in quanto regista non può che esercitarsi nelle immagini, o per immagini. Come Eva, crede in un agire politico che è puro umanitarismo senza alcuna idea politica particolare. Non ha fiducia nelle istituzioni: loro sì, davvero disinteressate al bene pubblico, ciecamente insulari, e affronta criticamente la lingua che le immagini pubblicamente parlano nel dire il conflitto.
Anni prima, sui Cahiers, l’engagé Godard sosteneva che il cinema è per Bergman arte individuale, e che se l’essere solo implica farsi delle domande, fare dei film è rispondere. D’altra parte, l’anno successivo il regista realizza Fårödokument 1969, unico suo documentario, dove la gente dell’isola in cui l’autore risiedeva espone i problemi sociali del territorio, rivendica diritti di solito garantiti a chi vive invece nei grandi centri, a conferma di un certo impegno anche a prescindere da schieramenti.
Essere responsabile, allora, per un regista colpito tempo prima dalle immagini dei lager, è scrutare l’umano e il suo linguaggio – agire o guardare –, non essergli vergognosamente indifferente. È un atto politico.
Riferimenti bibliografici
I. Bergman, Lanterna magica. L’autobiografia del maestro del cinema, Garzanti, Milano 1997.
J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981.
S. Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro, Milano 1995.