Vito Teti ha molto viaggiato ed è molto tornato. Lo si capisce dal libro fotografico Homeland – titolo preso dal nome della nave che nel 1952, quando Vito ha i 18 mesi previsti da Lacan per la “fase dello specchio” in cui si forma l’io come altro, porta il padre Stefano in Canada dove resterà sei anni – in cui le immagini si dipanano fra Toronto e altre località dell’Ontario, visitate al ritmo di un viaggio ogni decennio. Nel 1982 Teti, allora programmista-regista della sede regionale Rai della Calabria, giovane fan di Bruce Springsteen born in the Magna Grecia, fotografa gli esterni di Toronto e gl’interni dei negozi italo-canadesi come fossero set di Martin Scorsese (ma è lui il regista del documentario Rai America dove, 1983-1984).
Nel 1990 a fotografare è il fraterno amico Salvatore Piermarini, recentemente scomparso (appena dopo la pubblicazione del libro-testamento Il perduto incanto, Rubbettino 2019): in mezzo a “paesani” colti in attività (per esempio, Ciccio Bellissimo, un nome che sembra un soprannome, guida il suo truck lungo la Highway 401) Vito Teti, che nel frattempo è diventato docente di antropologia all’Università della Calabria, è un personaggio che compare in contesti accademici (alla Carleton University assieme al poeta Antonino Mazza, le cui traduzioni di Pasolini hanno vinto nel 1992 l’Italo Calvino Prize della Columbia University) ma anche in una foto di gruppo del Club Sannicolese di Toronto (i “paesani” sono quelli originari di San Nicola da Crissa, nelle serre di Vibo Valentia: l’indagine scientifica modello diaspora studies sconfina nella visita ai lontani parenti lontani).
Chissà perché gli antropologi prediligono ancora il bianco e nero: in fondo è almeno dal 1984, cioè dal Viaggio in Italia organizzato da Luigi Ghirri, che il colore si è imposto anche da noi per il suo carattere vernacolare e la capacità di restituzione creativa della realtà; anche se il 1984 è anche l’anno in cui Mario Giacomelli arriva in Calabria (con in tasca Il canto dei nuovi emigranti di Franco Costabile, 1983) per fotografare in bianco e nero paesini aggrappati alla roccia come Badolato (che poi Wenders filmerà in 3D) o Pentedattilo. Ma in un libro come Homeland, pubblicazione di oggi che ripropone immagini di ieri, il bianco e nero è figlio di una doppia nostalgia: quella per il tempo passato, come se le immagini tecniche fossero eternamente retrò (ma anche la tv italiana era a colori, ai tempi della Terza rete Rai); e quella per un luogo lontano, sbiadito nel ricordo ma anche reso classico da questa sorta di sobrietà estetica.
Nel viaggio datato 1994 (l’antropologo ha già pubblicato molti libri importanti, fra cui La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, 1993) le foto sono nuovamente firmate Vito Teti: stavolta siamo a Midland, in un Ontario da western classico, ma poi di nuovo a Toronto, dove in un negozio di dischi compare a sorpresa Nilla Pizzi. Infine, nel pacchetto 2004, colpo di scena tecnologico: le fotografie di Vito Teti, fatte con la Hassenblad e non più con la Nikon, si dilatano in un formato panoramico che trasforma ogni ambiente interno o esterno nell’inquadratura di un film in cinemascope; come mai per fotografare l’entrata di una villetta a Lisgar Street (Little Italy di Toronto), sicuramente ricca di dettagli (compresa una bicicletta alla Spielberg), bisogna avere un obiettivo così spettacolare? La risposta psicanalitica (nel senso del “complesso di Telemaco” teorizzato da Recalcati) è nascosta in un libro del 2011 (Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet): la “casa dei 33 pani” – così chiamata perché all’epoca il panettiere a domicilio lasciava davanti alla porta un pane per ciascun abitante – era quella in cui abitava il padre emigrato. Il cinemascope è il formato della memoria di un bambino.
Le quasi cinquecento pagine del volume fotografico Homeland (patria, certo, ma letteralmente “terra-casa”, che è più e meno di paese natìo) stanno alle cinquecento paginette iconoclaste di La restanza (“autobiografia di un antropologo”) come le due parti – la prima fotografica, la seconda scritta – dell’automonografia Barthes di Roland Barthes (1975): le immagini in bianco e nero di un Canada che era il futuro ed è già il passato fanno pendant con le riflessioni di un professore andato in pensione e dunque votato a mettere ordine nel proprio archivio intellettuale, per lasciare un’eredità di concetti (almeno un neologismo!) alle nuove generazioni. Nel solco di un pensiero socio-antropologico che è passato dal «folklore come cultura di contestazione» (Lombardi Satriani) al «pensiero meridiano» (Cassano), Teti prova a sintetizzare il suo lato di indagatore dei mood collettivi (titoli come La melanconia del vampiro, 1994; Maledetto Sud, 2013; Terra inquieta, 2015; Pathos, 2020; e ovviamente Nostalgia. Antropologia di un sentimento presente, 2020) e il suo lato di etnologo che esce dal metrò per vedere cosa c’è fuori dai non-luoghi della surmodernità (Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2014; Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli 2017). Teti ha dunque scritto L’anti-Ulisse?
La restanza è innanzitutto un sentimento individuale, «il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente» (Teti 2022, p. 5); ma è anche una presa di posizione collettiva, una controtendenza generazionale, «la nuova dimensione del restare, inteso non solo come accettazione di un destino, ma come volontà, come scelta» (ibidem). Alcuni segnali arrivano dalla letteratura: romanzi come Resto qui di Marco Balzano (2018) o Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio (2020) – così come le poesie di Nicola Grato (Le cassette di Aznavour, 2020), Alessandro Cannavale (Il sarto dei piccoli strappi, 2020), Mario Bellizzi (La crisalide e la forma dei silenzi, 2021), Emiliano Cribari (Errante, 2022) piuttosto che la “paesologia” di Franco Arminio – sembrano aver acquisito i valori della restanza. Il termine intanto circola in varie opere, dall’album di Battista Lena La Restanza. Fantasia for winds and percussions (2020) al libro di Savino Monterisi Cronache della restanza (2020) al documentario di Alessandra Coppola La Restanza (2021). Potenza di un neologismo carico di suggestioni profonde, capace di ispirare.
Se la modernità del cinema è legata al connubio fra erranza e veggenza (il neorealismo caro a Deleuze arriva fino al premio Oscar Nomadland, Zhao 2020, non a caso musicato dall’italiano Ludovico Einaudi), esiste un cinema della restanza? Nel film che fece innamorare Lidia Ravera, Domani (1974), Mimmo Rafele metteva in scena a Badolato un padre che attende per anni il ritorno dall’America di un figlio mitizzato dalla distanza spaziotemporale; quando il bel giovane un giorno si presenta, il genitore lo disconosce, ormai abituato a vivere nell’attesa e nella perdita. Il bello di questa storia è che Rafele la trae dal racconto di Joseph Conrad Domani (1903): Badolato è il luogo-interprete di un luogo-personaggio che in origine era un posto di mare in un’altra nazione, o forse solo un luogo della mente, atopico e acronico. Non è questo il rischio di tutte le rivisitazioni del Sud, comprese quelle di Michelangelo Frammartino (che però con Il buco, 2021, opta per una forma paradossale di fiction, in cui il Pollino di oggi recita il Pollino degli anni Sessanta grazie a una copertina con la foto di Kennedy) se non quelle di Jonas Carpignano?
In un’epoca in cui tutte le film commission regionali hanno come mission (impossibile?) quella di trasformare anche le aree interne in “terre promosse” per il cineturismo – apripista è stato Basilicata coast to coast (2010) programmaticamente nato dopo l’exploit di Matera (dovuto a La passione di Cristo di Gibson, 2004) proprio per pubblicizzare i luoghi legati a Carlo Levi e Francesco Rosi –, Vito Teti ha paura che la trasformazione dei luoghi in location finisca con il distruggere o snaturare definitivamente quel che rimane del Meridione caro a Pasolini. Se i dubbi sulla globalizzazione giungono fino a progetti di decrescita, se i movimenti anti-turismo arrivano a contestare la “dromomania”, “l’imperativo della mobilità”, “il mobilismo come motore ausiliario del capitalismo” (tutti capitoli del libro di Rodolphe Christin Turismo di massa e usura del mondo, 2019), allora la parola restanza esiste per ricordarci che chi rimane non rimane solo per vendersi al miglior offerente. Per il restante, vale il proverbio “Lu jire e lu venire Deu lu fice”: l’arrivare e l’andare via, come il nascere e il morire, dipende da Dio.
Riferimenti bibliografici
V. Teti, Homeland, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.
Id., La restanza, Einaudi, Torino 2022.
Vito Teti, La restanza, Einaudi, Torino 2022.