“Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”, dice fra sé e sé Nia, l’aliena del capolavoro di Eleanor Arnason, Sigma Draconis (A Woman of the Iron People, 1991), alla fine dell’avventura che l’ha portata a conoscere gli alieni (che in questo caso sono i terrestri, e in particolare Lixia, l’antropologa della spedizione), sbarcati per la prima volta sul suo pianeta. Nia è una vivente simile agli umani ma ricoperta da una folta pelliccia che appartiene ad una civiltà preindustriale, in cui i ruoli di quelli che sulla Terra sarebbero donne e uomini sono profondamente diversi. Le “donne” di Sigma Draconis vivono infatti insieme nei villaggi con i loro figli, mentre gli “uomini”, vivono da soli nelle immense pianure del pianeta (i giovani “maschi” lasciano i villaggi all’inizio della pubertà).
L’eterosessualità è un tabù che può essere infranto solo durante la breve stagione degli amori. Nel romanzo si allude ad eventuali relazioni omosessuali fra le donne dei villaggi (non a quella maschile), alcune delle quali non sono interessate neanche ad avere figli. Nia, tuttavia, è stata cacciata via dal suo popolo – il popolo del ferro; Nia infatti è un’abile fabbro (fabbra?), su Sigma Draconis un tipico lavoro “femminile” – perché aveva voluto vivere stabilmente con un “uomo”. Dopo la fine tragica di questa relazione vive da sola nelle sconfinate praterie delpianeta. Nia, in sostanza, non vive come il suo popolo, e la sua conformazione fisica, avevano deciso che avrebbe dovuto vivere. Nia è libera.
A questo serve la fantascienza, a immaginare forme di vita diverse da quelle che la nostra mancanza di immaginazione, o la nostra paura, ci impedisce di sperimentare. È questo il punto di contatto fra la fantascienza e la psicoanalisi, almeno la psicoanalisi così come la teorizza e la pratica la femminista e psicoanalista Manuela Fraire: il lavoro psicoanalitico, infatti, «mette fuori gioco l’illusione di una ricostruzione da erigere sui resti del passato, poiché a guidare la navicella spaziale in cui si trovano per un certo tempo paziente e analista è pur sempre il desiderio di incontrare mondi nuovi mai visti prima» (Fraire 2023, p. 75). Non è il passato l’oggetto della psicoanalisi, e quindi il rimosso e il già stato (che per sua natura non cerca altro che di ripetersi), è piuttosto l’invenzione di un futuro non ancora immaginato. Si tratta, come scrivevano Deleuze e Guattari, di produrre nuovo inconscio, ossia nuova impensabile vita.
Ma perché, si chiede Fraire, non riusciamo proprio a vederli (e appunto, nemmeno a immaginarli), questi “mondi nuovi”? Perché non riusciamo a vedere l’aliena Nia – una “donna” pelosa con le mani da fabbro – che virtualmente è in ciascuna di noi? Perché ciascuna di noi è intrappolata, come invece non è Nia, nello schema delle identità e dei ruoli che ogni identità sembra inevitabilmente destinata a portarsi con sé. Fraire, abbiamo detto, è prima di tutto una femminista, e quindi è di Nia che ci stiamo occupando. Ecco perché Fraire ci aiuta a sbrogliare il groviglio di associazioni fra identità e doveri che rende così asfissiante la posizione femminile. Si parte, intanto, dalla differenza fra i sessi: «La differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarità. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale» (Fraire 2023, pp. 16-17).
Il sessuale, o per usare la formulazione di Laplanche il sexuale, è il campo della sessualità non riproduttiva, ossia il campo vastissimo della sessualità libera e creativa – «il sessuale infantile perverso e polimorfo che precede le assegnazioni» (ivi, p. 45) identitarie sociali – che non rientra nello strettissimo spazio della sessualità al servizio della riproduzione della specie. Il sexuale è libero. Che succede, si chiede Fraire, se questo campo di virtualità non identitarie viene lasciato libero di sperimentare? Si pensi, ad esempio, alla «opportunità che donne e uomini si stanno dando reciprocamente di fare esperienza di una genitorialità risultato della disgiunzione tra procreazione e maternità [che] apre ad un’impresa comune senza cui è difficile immaginare un futuro della specie» (ivi, p. 37). Perché Nia deve per forza essere madre per avere dei figli? E ancora, perché non poter immaginare un mondo in cui «la maternità non è legata al corpo» (ivi, p. 46)? Già, perché no? O perché non accorgersi (una scoperta che Fraire ricava da tante analisi di donne) «che l’esperienza della gravidanza può essere desiderata come fine a sé stessa» (ivi, p. 47) e non per diventare madre?
E ancora, perché non prendere atto con sollievo, e non con rimpianto, che «spettacolare è dunque non il declino del padre, ma del patriarcato come sistema che ha regolato il rapporto tra i sessi. Ci sono le condizioni perché la funzione paterna si smarchi dall’ombra del padre patriarcale?» (ivi, p. 77). Si può essere “padre” senza essere padre biologico, come si può essere “madre” senza essere state le portatrici del neonato? È solo l’utero che definisce l’essenza di una donna? Questo ci mostra Nia, un mondo molto diverso dal nostro ma anche molto simile al nostro, un mondo che in realtà è già presente, è già il nostro mondo, ma non riusciamo a vederlo, come l’esploratrice Lixia che all’inizio non riusciva a capire la stranezza di un mondo in cui l’eterosessualità è quasi un peccato contro natura (un tema simile viene esplorato in un altro appassionante romanzo di Eleanor Arnason, Meduse, Ring of Swords, 1993).
Mettere in campo il sexuale significa allora salire sulla “navicella spaziale” per provare a fare esperienza di “mondi nuovi” in cui «la donna non è colei che NON ha il pene, così l’uomo non è colui che NON ha il seno» (ivi, p. 86). Si tratta di immaginare una “identità” non costruita in contrapposizione ad un’altra identità, come se maschile e femminile esaurissero tutto lo spazio delle possibilità di individuazione. C’è sempre quel “resto”, ci ricorda Fraire, ossia il sexuale, che non è assimilabile alle identità precostituite e già da sempre assegnate. C’è sempre la possibilità di prendere la strada di Nia l’aliena.
Già la sentiamo la scontata obiezione: ma che cos’è una donna se non un vivente che appunto “non ha il pene”? E che cos’è un uomo se non un vivente “che non ha il seno”, e che quindi non può allattare? Ma si può essere madre solo in un modo? E padre soltanto in un modo? In realtà “la novità” del nostro tempo «riguarda una genitorialità non identificata né con il materno né con il paterno, una posizione non di genere, non binaria» (ivi, p. 92). Che una genitorialità del genere sia al momento impensabile (anche se non per tutti) non vuol dire che sia sbagliata o contro natura, ché la storia di Nia ci mostra che la natura è un vincolo di cui non possiamo non tenere conto, ma non un impedimento assoluto. Nia è “donna”, ma questo non significa che non possa scegliere una vita diversa da quella che la sua costituzione fisica, e le tradizioni del popolo del ferro, avevano deciso per lei. Non si tratta nemmeno di inventarsi a capriccio una identità; si tratta piuttosto del faticoso lavoro che porta ogni corpo umano, o quasi umano come quello di Nia, a costruire una identità in cui diventare sé stessi.
E non è certo una caso che Nia sia una “donna”, perché è sul corpo delle donne che è più forte la pressione sociale a identificarsi prevalentemente, se non esclusivamente, con il ruolo di madre. Nia sperimenta sé stessa, sperimenta la propria identità quando si accompagna agli alieni terrestri per scoprire una vita completamente diversa dalla sua. Come scrive Fraire, è «spaventoso ammettere che una donna possiede un corpo dentro il quale può, oltre che fare, anche disfare il vivente. (Frankenstein è il parto della fantasia di una donna e non di un uomo, non bisognerebbe dimenticarlo). Nelle pratiche abortive quando liberamente scelte dalla donna è lei stessa che occupa il posto dello scienziato sperimentatore» (ivi, p. 97). In questo senso aprire “la porta delle madri” (un’espressione usata da Freud) significa liberarle dall’unica identità – quella materna – che sempre di nuovo le si vuole attribuire. Fare la madre, ovunque tale desiderio si manifesti, come reiterazione del dono d’amore che da quella abbiamo ricevuto o come risarcimento per ciò che è mancato nel suo amore, è un’illusione pericolosa. Vuol dire negare ciò che la persona/madre sta a ricordare e testimoniare: che nel legame con la madre c’è fin dall’origine una mancanza, il cui senso in potenza consiste in un’apertura a impedire la fusione, la reduplicazione dell’identità, l’annessione a sé dell’altro (ivi, pp. 116-117).
Torna qui il tema di quel “resto” inassimilabile che sfugge alla presa delle identità precostituite. La madre è madre, ma non è solo madre né principalmente madre. C’è anche questo dietro “la porta delle madri”, un mistero, una “apertura” che non si può rinchiudere in una identità definita una volta per tutte. Torna, soprattutto, il tema della libertà, che è al centro di questo libro. Una libertà che non significa tanto libertà di affermare sé stessi (secondo la formula tautologica dell’identità, A = A), al contrario, è la libertà di perdere sé stessi, cioè di offrirsi all’incontro con l’altro, come Nia nei confronti dell’aliena terrestre Lixia. È questo il desiderio femminile secondo Fraire, un desiderio che non è alla ricerca di ciò che manca, al fine di ricostituire un’unità (sul modello di quella fusionale della madre con il corpo che le cresce dentro), al contrario, un desiderio che cerca l’impensabile e inassimilabile reale del mondo. Fraire pone allora una distinzione radicale fra l’atteso e l’ospite. Nel primo caso «desiderio sta qui per vagheggiamento di qualcuno o qualcosa che appaia al momento dell’incontro come ciò che attendevamo e per ciò stesso conforme. Chiamiamo “l’atteso” l’oggetto che presenta al momento dell’incontro questa caratteristica. Per differenza chiamiamo “l’ospite” quell’oggetto che si presenta con caratteristiche di non riconoscibilità e per ciò stesso difforme» (ivi, p. 138). Anche se quando poi l’incontriamo lo detestiamo, è l’ospite che desideriamo di incontrare (come Nia verso Lixia, e Lixia verso Nia), perché solo l’ospite ci cambia la vita:
L’ospite, a differenza dell’atteso, non piace né dispiace, lascia invece inter-detti. Si colloca cioè nello spazio in cui il nostro dire non basta per definire. In questo senso egli è difforme, di forma diversa cioè da quella che la nostra immaginazione vorrebbe. In quanto tale esso è anche unico poiché non fa parte di oggetti assimilabili tra loro. Infine esso è solitario in quanto separato da noi e da chi ci è familiare (ivi, pp. 142-143).
I “mondi nuovi mai visti prima” si aprono solo quando ci esponiamo alla possibilità dell’incontro con l’ospite inatteso. Finisce un mondo, ne comincia un altro. La psicoanalisi, e il femminismo, per Manuela Fraire sono due pratiche che non hanno altro scopo che vincere la paura dell’ospite. L’atteso, il noto, l’identità. Quant’era bella la vita prima che arrivassero gli alieni dalla Terra. Ma gli alieni sono ormai sbarcati, in realtà sono già da sempre arrivati. La vita comincia solo quando si apre “la porta delle madri”. Poi non resta che seguire Nia, l’aliena: “Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”.
Riferimenti bibliografici
E. Arnason, Sigma Draconis, Mondadori, Milano 1991.
Manuela Fraire, La porta delle madri, Cronopio, Napoli 2023.