È, letteralmente, una “vita da cani” quella che, fuori da ogni specismo, si trovano ad affrontare, da sempre, gli oppressi e le oppresse di ogni società e tempo. Lə oppressə, si potrebbe specificare, visto che, come testimonia un articolo recentemente apparso su Jacobin Italia, chi scrive condivide i presupposti di una stessa piattaforma culturale e politica con l’autore del saggio qui recensito (presupposti che non si limitano ai flame delle bolle social, esclusivamente triggerati dalla presenza o meno della schwa in un qualsiasi tentativo di analisi politica e culturale). Di seguito, si cercheranno di evitare i convenevoli e le sciatterie delle recensioni solidali – o, peggio, amicali – ma è d’altra parte difficile non alludere una piattaforma culturale e politica comune con un autore che, già con il primo libro, Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (Ombre Corte, 2019), recensito qui per Fata Morgana Web, si proponeva di pubblicare un testo che non fosse rigidamente “accademico”, bensì di poter parlare a un pubblico più vasto e “dell’attualità” – senza cedere, al tempo stesso, alle sirene, talvolta gelose, della cosiddetta “divulgazione”. La politica della rabbia. Per una balistica filosofica procede nel medesimo solco, arricchendo e precisando l’intervento dell’autore all’interno di uno specifico ambito dell’agone politico contemporaneo.
Potrebbe sembrare, infatti, che la rabbia sia ormai un dato trasversale a vari posizionamenti politici, passando dalla white rage del suprematismo bianco a quella che sembra sostanziare discorsi e pratiche che, prima della crisi pandemica, venivano facilmente rubricate come “populismo” e che ora ottengono nuove, spesso egualmente consolanti, definizioni. Pur fornendo strumenti teorico-critici per analizzare anche questi fenomeni, Palazzi dimostra come sia ancora più facile e più trasversale la censura della rabbia (quando, cioè, per gran parte dell’opinione pubblica si «passa dalla ragione al torto», come si legge nell’incipit del libro), e ciò avviene, in particolare, quando la rabbia è sovversiva e non conservatrice, rivoluzionaria e non reazionaria. In funzione di questo, l’autore parte da un episodio molto significativo – l’indignazione per le fioriere danneggiate durante la manifestazione tenutasi a Firenze in seguito all’omicidio del venditore ambulante nero Idy Diene, nel marzo 2018 – per sottolineare come si possa invece analizzare, e costruire, una vera e propria “politica della rabbia” dalla parte degli oppressi e delle oppresse.
Non si tratta, infatti, di analizzare quella rabbia che è figlia del risentimento, un altro tipo di affect – l’analisi della rabbia condotta da Palazzi parte sicuramente dai principi nella cosiddetta affect theory, ma ne propone infine un’elaborazione più vasta e articolata, a partire dalle prospettive della filosofia politica – ma che è classicamente associato alla piccola borghesia. La distinzione tra i vari tipi di rabbia non è possibile soltanto in base a una preferenza politica, ma anche grazie alla storia stessa della patologizzazione di questa condizione. Si ritorna, in altre parole, alla “vita da cani” menzionata in apertura, poiché la storia della rabbia, intesa come Rabies lyssavirus – virus spesso ospitato dai canidi – è il prisma attraverso il quale la rabbia umana può essere oggi adeguatamente ri-concettualizzata, tenendo conto, cioè, dei meccanismi di patologizzazione e repressione che hanno accompagnato le sue manifestazioni sociali. Dinamiche che si sono intrecciate fin da subito con la storia della follia, come sottolinea Palazzi, ricordando il passaggio della Storia della follia nell’età classica (1961) di Michel Foucault nel quale la “rabbia dei rivoluzionari” è direttamente associata (ancora una volta, dagli agenti sociali della repressione) a una condizione di devianza mentale.
L’analisi di Palazzi, tuttavia, non è meramente o soltanto foucaultiana: ricordando il nesso tra malattia e metafora portato alla luce da Susan Sontag, e diventato oggetto di una forse affrettata e sicuramente dispersiva vulgata in epoca di pandemia, Palazzi si sofferma sul «contagio della rabbia», ossia sul passaggio culturale e politico che ha reso la rabbia la malattia delle folle. Queste ultime, d’altronde, hanno fatto irruzione sulla scena della politica europea – come ambivalenti controfigure delle masse poi protagoniste del ventesimo secolo – nello stesso momento di esplosione della rabbia come malattia zoonotica, e cioè nel corso del diciannovesimo secolo. Anche a partire da questi brevi accenni, si può facilmente osservare come la rabbia si sia presentata non soltanto ai margini, ma anche al centro, dell’agone politico, secondo modalità talora molto chiare, talora ambivalenti, se non anche sfuggenti. Nelle “vite da cani”, si può tuttavia osservare in controluce un fenomeno che può fare da contraltare a questa descrizione inevitabilmente ambivalente della rabbia, ed è il rapporto (qui, più etimologico e culturale che non biologico o sociale) con il cinismo.
Derivante dalla medesima parola del greco antico, kuon (“cane”), il cinismo esprime un particolare tipo di rabbia, già identificato – sempre da Foucault, nel Coraggio della verità (1984) – come una «vita che abbaia […], ossia una vita capace di battersi, di abbaiare contro i nemici, di distinguere i buoni dai cattivi, i veri dai falsi». In virtù di questo, come chiosa Palazzi, per i cinici «l’esistenza si tramuta in un’aleturgia, una manifestazione diretta della verità» (Palazzi 2021, p. 83). Il caso di Diogene di Sinope, filosofo cinico del IV secolo a.C., è chiaro, in questo senso, per il famoso aneddoto secondo il quale Diogene vagava per la città quasi completamente nudo, all’interno di una piccola botte sottratta al tempio di Cibele. Più precisamente ancora, Diogene «era un asceta» commenta Palazzi «non nell’accezione automortificante della parola, ma in quella che si riferisce genericamente a un lavoro di sé su sé: rinunciava soltanto a ciò che percepiva come limitazione della propria autonomia» (ivi, p. 85).
Palazzi, in altre parole, ci invita a riscoprire il potenziale politico del cinismo, uno dei primi movimenti autenticamente cosmopoliti – del filosofo cinico, in quanto “figlio di un cane”, «non si sapeva esattamente in quale luogo fosse diretto […] o da dove provenisse» (ivi, p.85) – e agitatori della politica “dal basso”, senza alcuna protezione dal potere costituito. In questo, risiede tuttavia anche uno dei possibili rischi per quest’affascinante rivalutazione contemporanea del cinismo: in una bella ma forse troppo risicata nota sulla scarsa utilità, in quest’argomentazione, della Critica della ragion cinica (1983) di Peter Sloterdijk, Palazzi scrive che «Sloterdijk non sembra cogliere del tutto l’importanza della scelta di vita alla base dell’antica filosofia cinica, potendo così arrivare a ritrovarla in figure – da alcuni artisti dadaisti a Heidegger – che riformularono forse elementi cinici a livello artistico e culturale, ma di certo non ne fecero un’esplicita forma di vita da perseguire con coerenza» (ivi, p. 266). Tuttavia, il titolo del capitolo di Palazzi cui si riferisce questa nota è “L’arte di essere un cane”, indicando come il cinismo non si discosti, in fondo, dall’essere un’arte, ossia una tecnica appropriabile anche al di fuori della forma di vita che le sarebbe più immediatamente congeniale.
A ragione di questo iato, che apre a possibili esiti totalmente culturalizzati e, parallelamente, depoliticizzati – non più prodotti delle classi oppresse, bensì, in una parola cara al marxismo d’antan, “borghesi” – del cinismo, sembra opportuno riconfigurare la scelta cinica, come anche Palazzi, in fondo, suggerisce, non tanto come “scelta di vita” o come “lavoro sul sé”, bensì come manifestazione del rapporto, da intendersi secondo una dialettica in primo luogo gramsciana, tra teoria e prassi. Procede in questa stessa direzione l’altra componente innovativa del saggio di Palazzi, ossia il ricorso a una “balistica filosofica” che prenda in considerazione gli attori, la traiettoria e i bersagli della “politica della rabbia”, secondo una perizia che è spesso ex post, ma che non per questo abbandona del tutto il terreno speculativo – quando, ad esempio, ci si interroga «sulla possibilità di un tiratore esperto di mettere ipoteticamente a segno un tiro di una determinata difficoltà» (ivi p. 74).
Palazzi dichiara che questa via interpretativa implica «un qualche sbilanciamento verso la rabbia in atto, piuttosto che in direzione di una meramente ipotetica» (ivi, p. 74), ma, anche così, l’idea di una “balistica filosofica” mantiene un suo potenziale interpretativo e pratico, che l’autore rintraccia brillantemente, nella seconda parte del libro, in alcune figure emblematiche per il suo discorso. La prima è Valerie Solanas, autrice del Manifesto SCUM (1968) – insuperato esempio di elaborazione teorica della “rabbia femminista” – e assurta agli onori delle cronache per il tentato assassinio di Andy Warhol, sempre nel 1968. Nella sovrapposizione tra i due momenti, rintracciabile anche in testi critici apparentemente “insospettabili” come The Queer Art of Failure (2011) di Jack Halberstam, Palazzi rintraccia una censura del femminismo rabbioso come movimento politico “irrazionale” ed “estremista”, giudizio che ancora oggi si registra con frequenza nei confronti di alcuni fenomeni culturali e politici come il MeToo.
Viceversa, è proprio grazie alla sua rabbia venata di umorismo – rispetto al quale sembra opportuno precisare come l’utilizzo di questa categoria, da Pirandello in poi, non sia stato sempre al riparo da appropriazioni conservatrice o reazionarie tout court – che il Manifesto SCUM contiene vari passaggi ancora di grande attualità. Per Palazzi, soprattutto, il Manifesto di Valerie Solanas insegna che «arrabbiarsi è avere cura di sé mentre ci si prende cura del mondo – in maniera magari utopistica, ma non priva di efficacia» (ivi p. 130).
Palazzi rintraccia una lezione simile anche nella biografia e nell’azione politica di Malcolm X, nel suo rapporto complesso e più volte ripensato non soltanto con il leader della Nation of Islam, Elijah Muhammad, ma anche con le sue compagne. Come già Alessandro Portelli prima di lui – nella prefazione alla traduzione italiana, a cura di Riccardo Giammando, dell’Autobiografia di Malcolm X e Alex Haley (2020) – Palazzi ripercorre l’intera traiettoria del rabbioso militante afroamericano, concludendo che «dobbiamo essere grati a Malcolm perché, pur avendo smesso di odiarci, per fortuna non disse mai di amarci, evitando di obliterare il razzismo strutturale da cui, volenti o nolenti, traiamo quotidianamente vantaggio» (ivi, p. 165).
Audre Lorde è, infine, la figura con la quale i fili delle analisi condotte su Valerie Solanas e Malcolm X, nonché quelli della prima parte del libro, tornano a intrecciarsi. Non potrebbe essere altrimenti, del resto, nei confronti di un’autrice – femminista, afroamericana, lesbica e segnata dalla malattia, come Sontag, negli ultimi anni della sua vita – che ha sempre difeso la riscoperta dell’Eros all’interno della lotta politica, anche e soprattutto in merito alle divisioni interne ai movimenti: amare non per dimenticare, o per sorvolare sulle differenze, ma per rendere queste ultime agibili all’interno di un autentico movimento dialettico.
Tuttavia, Solanas, Lorde e Malcolm X non sono soltanto riferimenti emblematici della storia politica del secondo Novecento; attraverso i casi di Johanna Hedva – autrice della Teoria della donna malata in stretta relazione con l’opera di Audre Lorde, ma anche con il movimento Black Lives Matter – e soprattutto il movimento transnazionale Ni Una Menos/Non Una Di Meno, Palazzi mostra come la “politica della rabbia” possa essere, e sia, continuamente costruita e agita secondo modalità prolifiche, talvolta eccessivamente censurate, eppure ancora disponibili e feconde per chi vive “vite da cani”. Basta avere coscienza della dimensione storica e filosofica, qui rapidamente accennata, e farsi, secondo l’affascinante proposta linguistica dell’autore, “franchi tiratori”.
Riferimenti bibliografici
A. Haley, Malcolm X, Autobiografia di Malcolm X, Rizzoli, Milano 2020.
F. Palazzi, Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità, Ombre Corte, Verona 2019.
P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina, Milano 2014.
S. Sontag, Malattia e metafora. L’AIDS e le sue metafore, Nottetempo, Roma 2020.
Franco Palazzi, La politica della rabbia. Per una balistica filosofica, Nottetempo, Milano 2021.