Parte certamente da un titolo perentorio, e a suo modo spiazzante, l’esordio saggistico di Franco Palazzi. Del resto, quali altri saggi possono oggi vantare, già sulla copertina, un riferimento al tempo presente e alla filosofia politica dell’attualità? Pochi, forse pochissimi, se si escludono dal conteggio le forme del pamphlet.
Tutt’altro che pamphlétaires sono invece i toni e, soprattutto, l’impostazione teorico-metodologica del volume. A chiarirlo è un’introduzione – anch’essa intitolata “Pensare il presente”, a ribadire un generale ammanco della riflessione filosofica contemporanea e, allo stesso tempo, il peso specifico di una categoria generalmente considerata porosa e sfuggente – che vale da sola la lettura del volume.
Si parte, infatti, dall’osservazione di una generalizzata impotenza della filosofia politica contemporanea di fronte alla congiuntura attuale; la risposta, tuttavia, non sta in un superbo e magniloquente tentativo di colmare questa lacuna, bensì in un’analisi convincente delle cause dell’impasse – da rintracciarsi, innanzitutto, nelle condizioni materiali che regolano la produzione dei saperi – allo scopo di fornirne un ripensamento integrale.
Innanzitutto, per uno studioso di filosofia che si muove tra l’Italia e gli Stati Uniti, la depoliticizzazione della filosofia analitica, da tempo egemone oltreoceano, è un dato forse scontato, ma che non manca di essere interessante, se si considera la crisi interna del paradigma dell’obiettività (facilmente dimostrabile, se si pratica una benché minima critica dell’ideologia), insieme alla paradossale distanza dal pubblico non specialista da una disciplina che invece ha fatto della chiarezza e comprensibilità un suo cavallo di battaglia.
Altrettanto significative, però, sono le contraddizioni che incontra la filosofia continentale, attanagliata da quei processi di volgarizzazione che cronicamente infestano la “storia del pensiero” (secondo l’accezione foucaultiana, che la distingue dalla “storia delle idee”). Il caso riportato – ossia l’applicazione pervasiva dell’analisi del “campo” operata da Agamben in Homo sacer (1995), poi fatta oggetto di un ampio dibattito all’interno, ad esempio, dei Refugee Studies – ne è un esempio paradigmatico, che interroga profondamente il rapporto tra “teoria e prassi” (Palazzi 2019, p. 20) rivendicato a chiare lettere da Palazzi. La citazione degli Studies, ovvero di quella che, al netto dei dibattiti esistenti, è innanzitutto la più recente trasformazione del lavoro accademico, sulla base di impulsi provenienti dall’accademia statunitense, non è peregrina. Palazzi non li cita esplicitamente nell’introduzione, ma sono molti i contributi teorico-metodologici ad essi collegati che si possono ritrovare nei vari capitoli del libro.
In virtù di questo, la proposta di Palazzi sembra essere al tempo stesso affine e divergente rispetto all’odierno dibattito critico italiano, soprattutto se consegnato al dibattito e più spesso alle polemiche sul sapere “umanistico”, cronicamente in crisi: Palazzi fa tesoro dei contributi elaborati nell’ambito degli Studies – nei Postcolonial Studies e nei Gender Studies, in particolare – ma li sottopone sempre a una verifica logica e attenta, di natura transdisciplinare. Anche a livello metodologico, dunque, il suo libro può costituire una buona risposta al noto intervento di Barbara Carnevali di qualche anno fa, Contro la Theory. Una provocazione, nel quale l’identificazione derisoria della teoria critica contemporanea (struttura portante di molte ricerche nell’ambito degli “Studies”) con un “simulacro di filosofia” può essere utilmente messa a confronto con quelle che possono essere le debolezze della filosofia stessa.
L’introduzione è seguita da cinque capitoli – dedicati, in ordine di apparizione, a Black Lives Matter, al populismo nella Francia di Le Pen e Macron, al #MeToo, all’intreccio di razza, capitale e genere nell’Italia contemporanea e a quello tra depressione e neoliberalismo – che cercano di dare una visione d’insieme di alcuni dei dibattiti attualmente più urgenti e più carichi di potenziale teorico-pratico. La sezione più lunga e approfondita è senz’altro la prima, nella quale si analizza come il movimento Black Lives Matter abbia manifestato la necessità di “attivare il lutto come categoria politica”, in quanto questo “mette in discussione le condizioni di pensabilità dell’esistenza di chi è abietto o oppresso, ma anche quella degli oppressori stessi” (ivi, p. 83).
In questo senso, rielaborando criticamente il portato più vivo di Precarious Life (2004) di Judith Butler, Palazzi suggerisce strategie di universalizzazione che, pur non essendo esplicitamente orientate a decostruire l’universalizzazione compiutamente ideologica della reazione right-wing “All Lives Matter” (nella quale si perpetua l’identificazione dell’universale con il particolare white, piccolo-borghese e cisgender), ottengono questo risultato altrimenti inviso ad alcuni intendimenti delle teorie intersezionali. Palazzi, inoltre, mira a decostruire il “paradigma della rispettabilità della vittima” (ivi, p. 44), mostrando come questo sia funzionale al mantenimento dello status quo neoliberale e, in particolare, del dispositivo repressivo che è all’origine di Black Lives Matter.
Dibattito, questo, che resta qui consegnato a poche righe di semplificazione, ma che sicuramente trova echi rilevanti nel libro di Palazzi, quando l’autore si confronta con il movimento #MeToo. A tal proposito, lo slittamento semantico, non privo di conseguenze giuridiche ed etico-politiche, da testimone e testimonial è attraversato in tutta la sua complessità, fino a proporre un modello in grado di combattere quella “ingiustizia epistemica” analizzata da Miranda Fricker nel suo omonimo saggio del 2007. A tal proposito, uno degli auspici finali di Palazzi non può che essere condiviso: “È probabile che #MeToo riuscirà a lasciare una traccia duratura solo se sarà in grado di costruire legami e alleanze con i movimenti sociali che negli ultimi anni hanno promosso una visione fortemente intersezionale del femminismo nella lotta per la giustizia epistemica (e non solo)” (ivi, p. 121).
Di questo passaggio, oltre a rimarcare la necessità di prassi collettive che evitino approcci individualizzati e individualistici, occorre sottolineare anche il ritorno alle teorie intersezionali già citate. Queste ultime hanno molta parte anche nel quarto capitolo del libro, dedicato, come già si è accennato, all’intreccio di razza, capitale e genere nella storia unitaria dell’Italia. Palazzi insiste, in modo estremamente convincente, sulla razzializzazione costante dei processi politici ed economici; allo stesso tempo, il suo riferimento alle logiche del capitale non si traduce in quell’attenzione alla classe recentemente ribadito, non senza un radicamento nelle teorie intersezionali, da Mimmo Cangiano nell’articolo Intersezionalità, identità, comunità: a che punto siamo a sinistra.
E la classe – intesa non soltanto “in sé”, ma anche “per sé”, nella migliore tradizione marxista – potrebbe risultare di qualche aiuto anche nella trattazione, confinata al secondo capitolo, di un “populismo di sinistra”, basato su una rilettura critica e non banale dell’opera di Ernesto Laclau, in opposizione al “populismo di destra” emerso con forza nell’odierno panorama politico europeo.
Trattandosi apparentemente di una serie di incursioni nel presente che, in realtà, mostrano un’articolazione teorica tutt’altro che scontata, il libro si chiude ricollegandosi all’introduzione: l’appassionante confronto, sul nesso tra depressione e neoliberalismo, tra Mark Fisher e Frantz Fanon non ottiene soltanto di “provincializzare” il primo riferimento – ora molto hype (et pour cause) – ma ha anche un solido legame con il lavoro culturale in ambito accademico. Il riferimento, esplicitato da Palazzi, è agli articoli di Francesca Coin e, in particolare, a On Quitting, tradotto dall’inglese da Franco Palazzi e Michela Pusterla nel 2017.
Usciamo (per mano) dal castello dei vampiri è il titolo di un altro intervento di Francesca Coin, dedicato sempre all’opera di Mark Fisher, e si tratta di un invito a uscire dalle impasse della sinistra, divisa tra “la moralizing left, la sinistra colpevolizzante che è facile da riconoscere perché il suo scopo è “farti sempre sentire male con te stesso” e la sinistra ironica, quella che non può giudicare nessuno perché è già malconcia di suo – quella che non si prende sul serio, perché non può, quella in cui molti si sentono a casa”.
Mostrando le impasse della filosofia politica contemporanea, Franco Palazzi ci invita a uscire anche da un altro castello e ricominciare così ad avere un rapporto con il presente che contempli tanto la teoria quanto la prassi.
Riferimenti bibliografici
M. Cangiano, Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra, Le Parole e Le Cose2, 10/06/2019.
B. Carnevali, Contro la Theory. Una provocazione, Le Parole e Le Cose, 19/09/2016.
F. Coin, Smettere (On Quitting), Effimera, 23/11/2017.
F. Palazzi, Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità, Ombre Corte, Verona 2019.
*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro.