La prima sceneggiatura televisiva che porta la firma esclusiva di Mike Kelley, lo showrunner di Revenge (2011-2015) e di What/If (2019-in corso), è quella del sesto episodio della prima stagione di One Tree Hill (2003-2012), intitolato “Every night is another story”. Nella delicata fase di costruzione del mondo narrativo del fortunato teen drama targato Warner, l’allora trentatreenne scrittore si segnala immediatamente per un approccio complesso alla tecnica narrativa, narrando una vicenda che si svolge in una sola notte, si apre con un cold opening che ci presenta i personaggi alla fine della nottata e si chiude con una riflessione del narratore sul tema della temporalità: “Come a volte accade, un istante si fermò e rimase sospeso, e durò molto più di un istante. E il suono si fermò e il movimento si fermò per molto, molto più di un istante. Poi gradualmente il tempo si è risvegliato e ha ricominciato a fluire, lentamente”.
C’è già molto dello stile di Mike Kelley, la sua predilezione per le scene notturne, per l’apertura a freddo e per la manipolazione temporale. Le collaborazioni con i grandi teen drama del periodo (quattro episodi per One Tree Hill e sei per The O.C.) consolidano questo speciale senso del tempo, con personaggi giovani che spesso avvertono la nostalgia per il passato recente, per ciò che hanno vissuto pochi episodi prima; questa memoria del personaggi è proprio uno dei tratti della nuova generazione di prodotti televisivi, e Kelley non esita a esibire questa tendenza a “sentimentalizzare il passato” (per esempio in Blaze of Glory, seconda stagione di The O.C.).
Nel 2008 Mike Kelley ha la chance di scrivere una serie tutta sua, Swingtown, che la CBS colloca come summer replacement al posto di una serie poliziesca cancellata, Senza traccia. È l’occasione per realizzare su scala più vasta le sue idee drammaturgiche: la storia è ambientata nel 1976 in un sobborgo residenziale di Chicago (la città in cui Kelley è nato e cresciuto) ed è incentrata sulle vicende di tre coppie adulte che hanno una diversa reazione rispetto a nuovi stili di vita determinati dall’inedita libertà relazionale e sessuale. Siamo all’inizio della “nostalgia wave”, per usare una definizione di Katharina Niemeyer: la prima stagione di Mad Men è appena passata sul canale pay AMC, mentre The Hour, Boardwalk Empire e Downton Abbey sono ancora di là da venire. Tuttavia proprio la collocazione su network costringe Kelley (che aveva proposto originariamente Swingtown a HBO) ad abbassare i toni della serie e a rendere meno esplicito il sesso. Nonostante ciò, è comunque troppo per CBS, che non rinnova lo show.
Nel 2011 finalmente l’autore riesce a concretizzare il primo grande progetto da showrunner, venduto in tutto il mondo e capace di garantire all’autore una solida fama nell’ambito del serial drama: si tratta di Revenge (2011-2015), ancora una volta su network (ABC). È una storia ambientata nel presente ma tutta determinata dagli eventi del passato: è un’articolata vendetta che una giovane donna ha architettato ai danni di una famiglia di miliardari, colpevoli di averle ucciso il padre quando era piccola. La tecnica del cold opening è spinta al parossismo, con un arco narrativo che parte dall’episodio pilota (un ragazzo viene ucciso sulla spiaggia durante una festa) e si chiude dopo ben 15 puntate che raccontano i cinque mesi prima della festa: è il sintomo dell’affermazione della cosiddetta complex TV anche nell’ambito network e popolare.
La domanda drammaturgica costantemente rilanciata da Kelley è una domanda morale: è giusto rispondere alla violenza con la violenza, all’intrigo con l’intrigo, ribattere colpo su colpo? Kelley in realtà ha la sua risposta e la sottopone allo spettatore mediante la citazione di Confucio posta in esergo all’episodio pilota: “Se vuoi intraprendere la strada della vendetta, scava due tombe”. L’elemento di maggiore interesse in Revenge non è tanto sapere dove porta questa strada, ma il fatto che è il percorso risulta articolato come un viaggio iniziatico femminile o heroine’s journey.
La struttura narrativa del monomito, il viaggio eroico di cui Joseph Campbell ha individuato schema e repertorio, è stato un influente modello antropologico di lettura e scrittura del racconto cinematografico. Nel modello di Campbell l’eroe è un soggetto esplicitamente maschile che compie un viaggio iniziatico articolato in tappe; il personaggio femminile, in questo schema narrativo che contiene anche una scelta ideologica, la donna non compie alcun viaggio perché, secondo il parere di Campbell, “essa è la Meta”. Svariate studiose di scrittura creativa (Maureen Murdock, Carol Pearson, Valerie Estelle Frankel, Joan Gould, Clarissa Pinkola Estes, Marina Warner e altre) si sono successivamente impegnate a individuare modelli narrativi differenti, incentrati su un differente viaggio con relativo arco di trasformazione, quello del personaggio femminile.
Alcuni di questi modelli, pur non confrontandosi direttamente con la produzione cinematografica e televisiva, consentono di esplorarne le strutture narrative profonde, come si può dimostrare analizzando alcune serie tv contemporanee con protagonista femminile come Jessica Jones, Orphan Black, Scandal, The Good Wife e naturalmente le opere di Mike Kelley, Revenge e What/If. La più evidente specificità del viaggio iniziatico femminile è che non si tratta di una partenza ma di una ripartenza: la storia non comincia, non c’è nessuna “infanzia eroica” o stato di quiete o di ordinarietà. La storia ricomincia, riparte alla ricerca di un modo per elaborare dolore, perdita, privazione, ciò che il personaggio femminile ha subito nel passato: “Quando un personaggio femminile si imbarca in un viaggio dell’Eroina è per riparare ciò che è stato danneggiato” (A.B. Chinen).
Questo è il campo narrativo in cui Mike Kelley si trova a suo agio. What/If propone un nuovo percorso iniziatico, con protagonista una giovane che investe nella ricerca scientifica ma quando sta per fallire riceve una “proposta indecente”, ricalcata alla lettera dal celebre film di Adrian Lyne: cedere il marito per una notte alla donna d’affari più potente del mondo, che in cambio rifinanzierà la ricerca. Questa citazione rientra in una più ampia adesione all’idea di cinema di Lyne (da Attrazione fatale ad Unfaithful): un lavoro ossessivo sulla superficie dell’immagine, sulla patinatura, sull’esteriorità degli oggetti nel senso delle merci, come strumento per affrontare di petto le questioni morali della borghesia americana a partire dall’interrogarsi su ciò che il denaro possa o non possa comprare.
In Lyne ogni azione immorale ha conseguenze, più o meno devastanti, la catena causale degli eventi nei suoi film è sempre articolata in costanti biforcazioni morali che portano a una sanzione o a una redenzione. A livello tematico e stilistico, è lo stesso territorio esplorato da Mike Kelley, che non sembra andare incontro al brand del committente Netflix, ma continua a perpetuare il suo “stile network” proseguendo questa esplorazione della superficie sino alla semplificazione e alla rarefazione massima, per mettere in risalto la vacuità del “fuori” in confronto agli abissi del “dentro”.
La tecnica narrativa dell’autore, sempre più complessa, mette allo specchio due viaggi iniziatici femminili, uno al presente e uno al passato, intersecandone le storylines in un progetto discorsivo di grande pregio. Lavorando ormai a una televisione marcatamente tematica, svincolata da personaggi ricorrenti e interessata a storie capaci di esemplificare questioni morali, Kelley progetta What/If come serie antologica stagionale, non iterativa ed esente dal rischio di prolungare il viaggio iniziatico all’infinito; del resto lo showrunner aveva abbondonato Revenge dopo le prime due stagioni, rinunciando a sovrintendere lo sviluppo ulteriore della serie che aveva creato.
D’altra parte il racconto morale ha bisogno di chiudere per affermare il valore messo in questione; in caso di mancata chiusura, l’opera non rinvia soltanto la conclusione dell’arco narrativo, ma elude il problema del significato. In questo senso, in ambito narratologico, significati e finali sono strettamente connessi nella dimensione formale e pragmatica del racconto classico, dunque, come sostiene Marie-Laure Ryan, da una parte “la sequenza degli eventi deve formare una catena causale unificata e portare alla chiusura”, dall’altra “la storia deve comunicare qualcosa di significativo al destinatario”.
Non ritroveremo dunque, in una (ancora eventuale) seconda stagione di What/If, i personaggi della giovane donna (Jane Levy) e della sua antagonista (Renee Zellweger), ma ci confronteremo con un nuovo racconto morale, basato su una domanda drammaturgica del tipo “cosa succederebbe se…”. Nelle parole dell’autore, “la mia intenzione è quella di decostruire l’idea di destino…la mia protagonista nel primo episodio osserva che certamente tutto accade per una ragione, ma la ragione delle cose che accadono sei tu”.
Riferimenti bibliografici
L. Bandirali, Io viaggio da sola. Modelli di Heroine’s Journey nella nuova serialità televisiva, in “Comunicazioni sociali”, 2017, n. 1.
A.B. Chinen, Waking the world: Classic tales of women and the heroic feminine, Jeremy P. Tarcher, New York 1996.
M. Murdock, Il viaggio dell’Eroina, Dino Audino, Roma 2010.
M.L. Ryan, Avatars of Story, Minnesota University Press, Minnesota 2006.