Per quanto eccezionali siano le nostre vite, esse sono profondamente contrassegnate dall’ordinarietà e ricorsività dell’esperienza. Per cui se è vero che “domani è un altro giorno”, è anche vero che domani comunque “sorgerà e tramonterà il sole”, come dice uno dei personaggi di Paterson, per rassicurarsi sulla tenuta del mondo e la continuità della vita di fronte alla sua crisi sentimentale. Il film di Jarmusch restituisce con grande forza un quotidiano la cui iteratività non si declina né in senso commedico (riso), né drammatico (pianto), né esistenziale (noia). Abbiamo invece una declinazione poetica del quotidiano, che non è solo la serie di poesie che Paterson (Adam Driver) scrive su un taccuino, ma l’emergere di un tratto dell’esperienza in genere. Quello che ci permette di prendere le distanze e vedere le cose in forma nuova.
Il film scandisce la settimana di una giovane coppia di Paterson, New Jersey: lui autista di bus, lei a casa ad inventare la vita arredando con fantasia l’abitazione, preparando cupcakes da vendere al mercato, suonando la chitarra per immaginarsi una prossima carriera da folksinger. Ogni giorno della settimana (dal lunedì al lunedì) inizia con una inquadratura dall’alto della coppia a letto. Paterson che si sveglia, guarda l’orologio (è sempre mattina presto, con la luce dell’alba che illumina il letto), bacia teneramente la sua compagna, fa colazione ed esce di casa con il cestino per il pranzo che lei gli ha preparato. Breve passeggiata per giungere al lavoro, attraversamento della piccola e anonima cittadina, sguardi su scorci urbani ma anche su elementi naturali: il fiume e l’alta cascata.
Il protagonista si chiama come la città: coincidenza tra l’anonimato dei tratti del primo e quelli della seconda. In entrambi i casi l’assenza di rilievo, una temporalità ricorsiva, lo sfondo a cui tutto sembra appartenere, portano con sé una inesauribile possibilità di vita, testimoniata dalla poesia. Paterson è la città di poeti ed artisti (di William Carlos Williams, di Allen Ginsberg, di Lou Costello), e Paterson, l’autista, scrive poesie sul suo taccuino, capaci di trasformare il più banale oggetto quotidiano in un segno d’amore. Ecco l’oggetto, il fiammifero (inclusa la marca): “Abbiamo molti fiammiferi in casa nostra / Li teniamo a portata di mano, sempre / Attualmente la nostra marca preferita è Ohio Blue Tip / Anche se una volta preferivamo la marca Diamond / Questa era prima che scoprissimo i fiammiferi Ohio Blue Tip / Sono confezionati benissimo”. E poco dopo il passaggio all’amore: “Così sobrio e furioso e poi caparbiamente pronto a esplodere in fiamme / Per accendere magari la sigaretta della donna che ami”.
L’erranza del personaggio ha i tratti della circolarità, segnata da una scansione ordinata del tempo. Ogni giorno Paterson conclude la sua giornata portando a passeggio il cane e bevendo una birra al bar. Quest’ultimo è un luogo d’incontro, dove l’ordinario si manifesta nelle sue stranezze: da Donny (Rizwan Manji), il barman, che gioca a scacchi “con se stesso”, alla coppia di colore in perenne litigio. E dove la vita ci viene restituita sia come esteriorità – “Come ti tratta la vita?” è la domanda che Donny fa a Paterson – che come passività: “Non cercare di cambiare le cose perché sennò fai peggio” dice ancora il barman. Emerge qui un sentimento che fa della passività, dell’inazione, qualcosa di più profondo dell’azione stessa, cioè della modifica della situazione per un intervento volontario. La ritualità che scandisce le vite ordinarie è la cornice che perimetra e vincola l’ordine della discrezionalità e consente di sottrarsi al peso della scelta. Sottrarsi alla scelta, e dunque alla responsabilità, non significa necessariamente precipitare in uno stato di infantilismo. Significa piuttosto riportare l’esperienza sotto i contrassegni del rito da un lato e del gioco dall’altro. In entrambi i casi, l’esperienza è collocata sotto una esteriorità regolata, che la sottrae ad ogni interiorità volontaristica.
Il ritmo regolare che scandisce la vita quotidiana non manifesta né maniacalità (Paterson si sveglia da solo ogni mattina in un arco di tempo breve ma elastico, che va dalle 6:10 alle 6:30), né controllo (i contrattempi, come la rottura dell’autobus durante il servizio, vengono affrontati senza sconvolgimenti), né preservazione (non fotocopia il taccuino con le sue poesie, come gli suggerisce la ragazza). I tratti di ritualità si mescolano a quelli di ludicità. Donny nel suo locale gioca a scacchi, ma “gioca” anche Everett, il ragazzo nero che nel bar cerca di recuperare invano la sua ex. Recita, è un attore, dice la donna. E gioca anche il rapper che trova ispirazione in una lavanderia a gettoni. E soprattutto è Laura, la bella compagna di Paterson (interpretata da Golshifteh Farahani), a reinventare in forma ludica il suo quotidiano domestico, fra bricolage, cucina, hobby. Proprio il sentimento ludico sottrae il fare al peso della monotonia e della responsabilità, aprendolo all’inventività dei gesti e alla scoperta della contingenza, che permette di passare dall’astratto al qui ed ora di una esperienza ordinaria come bere una birra:
Quando sei bambino impari che ci sono tre dimensioni / Altezza, larghezza, profondità / Come una scatola da scarpe / Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione / Il tempo / Hmm / Poi alcuni dicono che ce ne sono cinque sei sette… / Stacco dal lavoro / Mi faccio una birra al bar / Guardo il bicchiere e mi sento contento.
L’azione si fa leggera quando, sottraendosi alla logica della responsabilità e della colpevolizzazione (vie d’accesso prioritarie ai dispositivi di soggettivazione), viene restituita all’esteriorità del mondo e al tratto non determinato, e in fondo non del tutto determinabile, dell’esperienza. Una regolarità, rituale e ludica, sottrae il soggetto al peso dell’azione responsabile. Una regola (che non è un’abitudine) è ciò che spersonalizza la vita, che la fa divenire ciò che non ci appartiene, che la differenzia dalla interiorità della persona. E quando vediamo nel film che a compiere l’azione più gravida di conseguenze, cioè dilaniare il taccuino dove sono scritte le poesie di Paterson, è un cane, capiamo che anche la causa del danno e del dolore non è ascrivibile all’ordine della volontà. Così come l’apertura di una nuova possibilità, quando tutto sembra estremamente complicato, avviene per un incontro (in quanto tale involontario) con un poeta giapponese su una panchina di fronte alla cascata.
Che significa allora in tutto questo la poesia? Che cosa significa in un personaggio distante da ogni tratto lirico ma anche melodrammatico la scrittura poetica? Significa forse che, come nei tratti prosaici di una esistenza anonima, in una cittadina senza alcun rilievo, in un film che declina in forma romanzesca (con un essere-con il personaggio della macchina da presa) le non-avventure del quotidiano, la poesia emerge? La poesia prende le distanze dal tratto determinato dell’esperienza e con ciò stesso ne fa emergere le possibilità. È nello scarto tra il dato e il senso, tra l’oggetto d’uso quotidiano (un fiammifero) e ciò che può aprire (l’amore), tra l’universalità di una categoria (il tempo) e la contingenza di un’esperienza (bere una birra), che si manifesta la possibilità di reinvenzione della vita e di rinnovamento del quotidiano. Quando tutto sembra finito, quando Paterson sembra essersi arreso dopo la distruzione del taccuino con le sue poesie, a quel punto l’incontro con il poeta giapponese riapre tutto. Quest’ultimo gli regalerà un quaderno nuovo, tutto da scrivere, dove il foglio bianco rappresenta la possibilità di scrivere nuove poesie, e le poesie l’apertura di una possibilità di vita: “A volte le pagine vuote offrono maggiori possibilità” gli dice il giapponese.
I grandi poeti a cui si fa riferimento nel film (oltre a quelli già citati, abbiamo Dante, Petrarca e soprattutto Emily Dickinson) testimoniano che il noto verso di Hölderlin (commentato da Heidegger), «Poeticamente abita l’uomo su questa terra», dice al fondo qualcosa che contrassegna l’umanità dell’umano. Al di là e attraverso il negotium c’è qualcosa che segna la nostra condizione, ed è la riapertura costante degli orizzonti di vita che passa attraverso la sospensione dell’attività e dell’azione. È una sorta di inoperosità (Agamben 2007) quella che permette di aprire il quotidiano in forma radicale, di rinnovarlo; di prendere le distanze dall’effettività e determinatezza dell’esperienza attiva. Al fondo del pragmatismo americano, c’è dunque un vuoto d’azione, una spersonalizzazione che passa dalla riflessività del verso poetico: «La poesia non è un libero sfogo di sentimenti ma una evasione da essi; non è espressione della personalità ma un’evasione dalla personalità» (Eliot 2016, p. 79).
Oltre ogni distinzione tra novel e romance come modalità di racconto del quotidiano e dell’ordinario, Paterson mette in immagine questo vuoto, perché è questo vuoto quello in cui si ritrovano, rendendosi indiscernibili, realtà delle cose e loro trasfigurazione immaginativa, i fiammiferi e l’amore. È nella sospensione della determinatezza e transitività della prassi (prenda essa la forma di gioco, ritualità o poesia) che la presenza al mondo può assumere il tratto della sorpresa. Le sorprese che Laura non smette di fare al suo Paterson, rendendo l’amore la sospensione più grande delle situazioni date. E le sorprese che si generano nell’eccedenza della vita rispetto all’identità della persona. Questa eccedenza nella grande tradizione letteraria americana può assumere la forma dell’avventura comunitaria della nuova democrazia, sotto il segno della forza e del divenire del soggetto (Whitman, Melville), o può prendere i contrassegni della sospensione e del vuoto, come nella poesia di Emily Dickinson: “Da Vuoto a Vuoto / Un cammino senza Fili / Mossi Piedi Meccanici”.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Vicenza 2007.
T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e sulla critica, Bompiani, Milano 2016.