“Vienna, Berlino, Hollywood” era il titolo di una famosa rassegna della Biennale di Venezia all’inizio degli anni ’80. Metteva a confronto tre luoghi cruciali per comprendere quella immensa stagione artistica che prende il nome di “Età d’oro di Hollywood”, fatta non solo di cinema. Registi (Lubitsch, Wilder, Lang, Murnau), compositori (Schönberg), drammaturghi (Brecht), filosofi (Adorno) e tanti altri esuli dalla Mitteleuropa in guerra sulle colline di Hollywood, che destituivano per la prima volta la centralità europea della cultura occidentale per portarla (definitivamente?) al di là dell’Atlantico.

Tra questi c’era Douglas Sirk. Sosteneva di essere uno di pochi a conoscere e amare profondamente l’America prim’ancora di arrivarci emigrato, e che ciò gli consentisse di sentirsi a casa e non semplicemente un ospite (John Halliday e Douglas Sirk, Lo specchio della vita, 2022). Un’autentica “passione americana”, tale da trasformare la grande forma melodrammatica (affinata nei film e spettacoli realizzati in Germania) nel modello di una personale narrazione delle contraddizioni politiche e sociali dell’America di Eisenhower a cavallo degli anni ’50, in particolare nei capolavori realizzati per Universal come Magnifica ossessione (1954), Secondo amore (1955), Come le foglie al vento (1956), Lo specchio della vita (1959).

Ma il senso della grandezza artistica di Sirk non si limita unicamente all’aver contribuito, insieme agli altri compagni di esilio, a istituire il linguaggio stesso del cinema classico, o alla capacità di tradurre la prossemica teatrale (che gli veniva dall’esperienza sulla scena tedesca) all’interno della composizione dell’immagine cinematografica. Sirk è stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento perché ha ricodificato le forme tradizionali del dispositivo melodrammatico per poi superarle e integralmente reinventarle. Inizialmente muovendosi dentro la dialettica fondativa del melodramma, che vede il soggetto intrappolato in un rapporto conflittuale con il mondo (all’opposto della commedia), inserito nella dinamica di coppia e messo di fronte all’impossibilità di conciliare la sua identità privata e amorosa con quella politica e pubblica. Una dinamica fondativa le cui radici affondano nella grande tradizione sette-ottocentesca franco-anglosassone e in quella italo-tedesca (soprattutto nelle grandi drammaturgie operistiche verdiane e wagneriane), in cui il personaggio è braccato tra queste due dimensioni ed è costretto ad abbracciare l’una o l’altra. Come nei grandi plot dei melodrammi classici degli anni ’30 e ’40, da La voce nella tempesta (Wyler, 1939) a Via col vento (Fleming, 1939), da Casablanca (Curtiz, 1942) a Lettera da una sconosciuta (Ophüls, 1948).

Il primo cinema di Sirk degli anni ‘50 adotta questa dinamica integralmente, per esempio, nello schema di Secondo amore, quando la coppia di protagonisti decide nel finale di unirsi anche se contrastata dal collettivo sociale della cittadina di provincia in cui vive, che la disapprova per la differenza d’età a favore della donna. Oppure in Tempo di vivere (1958), dove il mondo in guerra separa la coppia fino a dividerla tragicamente (lui è un soldato tedesco sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale, lei abita le rovine dell’immaginaria città di Werden). Rispettivamente due coppie di personaggi che si pongono in termini oppositivi rispetto alla propria natura sociale scegliendo di aderire a quella privata, oppure in cui è il loro destino politico e collettivo a prevalere annichilendo il piano interiore e amoroso.

Poi, a metà degli anni ’50 succede qualcosa, che per la prima volta rompe questo schema rigido sopravvissuto per secoli alle diverse mutazioni tra linguaggi teatrali, musicali e cinematografici. Nasce quel genere che a Hollywood prenderà il nome di «family melodrama», di cui Sirk è stato uno dei pionieri insieme a Kazan, Minnelli e pochi altri. Non più le dinamiche di coppia ma una imitation of life, una sorta di narrazione integrale che tenta di riconfigurare il genere nella prospettiva realistica della totalità umana in senso lukácsiano (l’operazione che negli stessi anni faceva Visconti in Italia con Senso, 1954, e soprattutto Rocco e i suoi fratelli, 1960). È la cifra de Lo specchio della vita, il suo più grande capolavoro, dove la totalità complessa dei rapporti generazionali, razziali, politici e amorosi tra due coppie di madri e figlie (le indimenticabili Lora/Susie e Annie/Sarah Jane) viene rispecchiata grazie all’alienazione del melodramma, che consente di rappresentare la realtà in tutte le sue componenti storiche e metafisiche oltre che in quelle puramente materiali ed esteriori.

L’adesione a un nuovo “realismo” melodrammatico – per mutuare una famosa espressione di Aristarco su Senso – che si pone l’ambizione di costruire una narrazione storica utilizzando paradossalmente la finzione come strumento di rappresentazione della vita e delle sue complesse dinamiche oggettive e intersoggettive. Come il teatro brechtiano, un cinema che imita e raddoppia le vite dei suoi protagonisti facendoli muovere nell’immagine quasi fossero sulla scena, riannodando l’illusione cinematografica con il distanziamento della mimesis teatrale. La rivoluzione immensa di un genio che all’epoca nessuno capì, poi solo Fassbinder, Godard e pochi altri, e che oggi non smetteremo mai di celebrare.

Riferimenti bibliografici
J., Halliday, D. Sirk, Lo specchio della vita, Il Saggiatore, Milano 2022.

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