di ANGELA MAIELLO
La nona stagione di Shameless.
Il “finale” è uno degli aspetti che più caratterizza il formato seriale; non perché finalmente la storia arriva ad un esito e lo spettatore può scoprire “come va a finire”, ma esattamente per la ragione opposta, perché la serie – se ha un concept, un nucleo tematico, molto forte che viene reiterato – potenzialmente può non finire mai. La nona stagione di Shameless ne è la conferma: una distratta interpretazione di alcuni indizi trovati su Instagram poteva far pensare che si trattasse dell’ultima stagione in programma e il season finale sembrava proprio confermare questa ipotesi; in realtà si apprende dalla rete che è la protagonista, Fiona (Emmy Rossum), ad aver lasciato lo show. Che, però, può continuare.
Da un punto di vista narrativo il concept, adattato da una serie tv britannica, è molto essenziale: una famiglia sgangherata, quella dei Gallaghers, cerca di sopravvivere a se stessa giorno dopo giorno, tra cadute e risalite, alcol, droga e povertà. Negli 8 anni che sono intercorsi dalla prima stagione ad oggi, i protagonisti sono cresciuti con gli attori (e viceversa) per cui oggi Fiona, la primogenita che aveva preso sulle sue spalle tutta la famiglia, può lasciare il testimone a Debbie (che all’epoca della prima messa in onda aveva solo 12 anni), a cui sembra toccare il compito di prendersi cura dei fratelli e dei nuovi membri della famiglia in arrivo. Eppure ciò che ha reso Shameless un piccolo gioiello nascosto della serialità televisiva contemporanea – destinato sia negli Stati Uniti che in Italia solo agli spettatori della tv via cavo – è tutto ciò che ha tenuto insieme queste vicende, ovvero la capacità di creare intorno a questi personaggi, e grazie ad essi, un mondo distinto e riconoscibile.
Quello di Shameless, infatti, è un mondo alla rovescia in cui sono i bambini a prendersi cura degli adulti (fortissima è una delle scene della prima stagione in cui Debbie lascia la tazza di caffè accanto al padre riverso a terra in uno dei suoi stati di totale ubriachezza), in cui i sentimenti più forti e fondativi non vengono mai narrativamente drammatizzati, ma restituiti attraverso l’estetica del politicamente scorretto. I Gallaghers non provano vergogna e fronteggiano a viso aperto quella dello spettatore – chiamato in causa e sbeffeggiato ad ogni riassunto di puntata – che si sente continuamente tagliato fuori, a disagio dinanzi a quel degrado che riesce a colpirlo innanzitutto a livello epidermico (e questa è una delle caratteristiche più sorprendenti della serie, che è riuscita a preservarsi nonostante l’usura della reiterazione).
Se, allora, esistesse una geografia delle serie TV, il primo posto alla voce Midwest spetterebbe senz’altro a Shameless: negli anni dell’obamanesimo, in cui il South Side, quartiere periferico di Chicago da cui proviene Michelle Obama, diventava il simbolo del dinamismo della società americana, della possibilità di riscatto e di autodeterminazione per tutti, in altre parole del sogno americano interpretato in chiave progressista, Shameless ci restituisce l’altra faccia della medaglia, quella in cui i vinti restano tali. La Storia resta ai margini del racconto, perché di fatto i protagonisti ne sono tagliati fuori e l’unico impatto tangibile degli otto anni di presidenza democratica su quella comunità è l’inarrestabile e perverso processo di gentrificazione che porta ad un conflitto sociale ancora più evidente e paradossale, in cui i bambini neri che vendono la limonata sui marciapiedi davanti alle case vengono allontanati dai nuovi abitanti bianchi del quartiere. Cosa resta dell’America, se la spogli del suo mito fondativo, proprio nel momento in cui questo prendeva nuova forza e fisionomia?
Resta una verità indicibile, un senso di ingiustizia inelaborabile, che si rispecchia in forma limpida e tragica nelle difficoltà dei Gallaghers e che viene incarnato in modo sfacciato da Frank. È il personaggio di cui sappiamo meno, ma i suoi sproloqui alcolici e le sue invettive tradiscono sempre un’estrema consapevolezza di sé, un’irragionevole lucidità che trova forma nell’alcol, nelle droghe e in quella sottile intelligenza emotiva che gli permette di trarre vantaggio dai sentimenti e dalle debolezze altrui, innanzitutto quelle dei figli. E i piccoli/grandi Gallaghers in queste nove stagioni hanno cercato, a turno, di dimostrare al padre e a se stessi che il sogno era possibile, che potevano uscire dal ghetto. A partire da Liam, il più piccolo, che poiché nero riesce ad entrare in una scuola privata da cui viene cacciato per colpa di Frank; Debbie che cerca di trovare il suo posto attraverso l’amore; Carl che dopo un passato da spacciatore sogna una vita nell’esercito, Ian che diventa il messia della comunità LGBT. E poi ci sono Lip e Fiona, certamente i due personaggi più tormentati, che più di tutti gli altri vivono lo scontro con la figura paterna e che cercano di realizzasi in due forme diverse ma complementari. Lip, il genio della famiglia, riesce ad entrare alla prestigiosa University of Chicago, da cui verrà cacciato per alcolismo; e Fiona tenta un’audace scalata imprenditoriale, che finirà rovinosamente riportandola lì dove tutto era iniziato, di nuovo in quella casa malmessa, sporca e affollata da cui aveva tentato con tutta se stessa di andar via.
Eppure questi personaggi non si presentano né si autorappresentano mai come delle vittime, ma sempre come protagonisti, più o meno consapevoli, del proprio destino, in una continua ricerca di sé, che si fonda su un vitalismo più forte di qualsiasi sogno infranto. Ad ogni giro di boa i Gallaghers hanno saputo trovare nella profondità più istintuale dell’animo umano, nell’amore, nel sesso, nella fratellanza, nell’orgoglio, nell’autenticità di sentimenti che non necessariamente hanno bisogno di un progetto, la riserva di forza per rialzarsi e andare avanti, a prescindere da ciò che ne sarà di loro, a prescindere dalla loro storia. Anche questo resta se all’America togli il suo sogno, una forza vitale che non conosce pudore, che si impone con irruenza e spontaneità e che la serie è riuscita, sicuramente in passato meglio che nelle recenti stagioni, a far emergere con sorprendente delicatezza, attraverso le pieghe di un racconto che sappiamo come va a finire e che quindi può anche continuare. Ed è proprio questa ciclicità, questa spinta vitale che ingaggia una speciale forma di empatia con lo spettatore: da un lato c’è la repulsione del disagio, il fastidio epidermico – sollecitato fin dai titoli di testa, sempre uguali in queste nove stagioni, nel fotogramma di Liam che intinge il suo spazzolino da denti nella tazza del bagno; dall’altro c’è il continuo riconoscimento della vita, della sua emergenza, della sua incongruenza e della sua potenza. E così in quel finale, che non è un finale, la vita ricomincia.
Riferimenti bibliografici
F. Di Chio, American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv, Carocci, Roma 2016.
F. Kermode, The Sense of an Ending, Oxford University Press, Oxford 1967.