Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! […]
Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore
Ma perché star qui a discutere, a parlare?
Le parole, credi a me Anna,
servono sempre meno, confondono.
M. Antonioni, L’avventura
Si è da poco conclusa la mostra Antonioni e Vitti. Una storia d’amore e di cinema. Sui set 1959-1964. Fotografie di Enrico Appetito, ospitata dal complesso di San Michele di Salerno per la VI edizione della “Rassegna Racconti del Contemporaneo”. Come scrive il direttore scientifico Alfonso Amendola nella brochure, questa mostra è stata pensata come un «dialogare visivo» tra il regista Michelangelo Antonioni e il fotografo Enrico Appetito. «Un dialogo forte, costante, denso, appassionato ed analitico che si realizza sui due set de L’avventura (1959-60) e Il deserto rosso (1964)».
Le fotografie di Appetito esposte giocano tutto su un’accorta dialettica tra arte cinematografica e arte fotografica. In questo scambio dialettico, la fotografia di Appetito, inizialmente integrata nell’ordito filmico di Antonioni, guadagna progressivamente una sua autonomia stilistica e tematica. Infatti, scrive ancora Amendola, «nell’incontro con il “cinema dell’incomunicabilità”, la fotografia di Appetito opera un sostanziale “sfondamento” dello spazio filmico, si sofferma sempre più sul dettaglio, fino ad arrivare a comporre una personale ritrattistica dei corpi, un lavoro perfetto sugli ambienti, un raffinato procedere di soggettive e primi piani».
Il lavoro espositivo, arricchito dalle opere di Clarissa Baldassarri, restituisce alla perfezione questo scambio dialettico, offrendo allo spettatore la possibilità di accedere, tramite l’intelligenza fotografica di Appetito, a uno spaccato anche intimo del lavoro di Antonioni e della sua compagna e attrice Monica Vitti, che mai scade nel biografismo documentaristico.
Visione del silenzio
Angolo vuoto
Pagina senza parole
Una lettera scritta sopra un viso
Di pietra e vapore
Amore
Inutile finestra.
Sono queste parole che il cantautore Caetano Veloso ha accuratamente scelto per il bellissimo brano Michelangelo Antonioni. Il pezzo, pubblicato per la prima volta nel 2000 nell’album Noites do norte, è stato utilizzato come colonna sonora di Eros, film collettivo del 2004 diretto da Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh e Wong Kar-wai. In questo contesto, il regista ferrarese dirigeva Il filo pericoloso delle cose, il suo ultimo lavoro. Fin dal primo ascolto fui catturato dalla bellezza del pezzo: il lamento che apre e inframezza le due identiche strofe; la voce suadente di Veloso con il suo lievissimo accento brasiliano; le parole che riescono a far sentire, a rendere quasi materiale, ciò che non si può vedere: l’assenza, il silenzio; la sensazione di trovarsi in una di quelle nuvole di nebbia in cui i personaggi de Il Deserto rosso perdono, insieme al proprio io, la possibilità di vedersi, di ascoltarsi.
Ho sempre pensato che il brano cogliesse moltissimo del senso dell’opera poetico-cinematografica di Antonioni, la quale, a mio avviso, è interamente attraversata dall’esigenza di dar figura ed esistenza a un silenzio inesprimibile, vale a dire a quel silenzio che rimbomba sordamente nello spazio vuoto che separa gli uomini, rendendoli incapaci di comunicare tra loro. Riprendendo il titolo di un importante libro in lingua inglese in cui sono raccolte interviste e scritti teorici, in questa breve nota guardo al cinema di Antonioni come a una straordinaria architettura della visione del silenzio (Antonioni 2007).
Nella mostra salernitana, il dialogo tra Appetito e Antonioni si compie, come detto, sui due film che aprono e chiudono la cosiddetta “tetralogia dell’incomunicabilità”, vale a dire L’avventura e Il deserto rosso. A mio avviso, l’architettura filmica delle due pellicole dà luogo a due diverse visioni del silenzio. Per quanto si possa certamente affermare, e con buone ragioni, che la tematica generale sia la stessa, appunto quella dell’incomunicabilità, Antonioni affronta tale questione con un approccio differente. A ben vedere, in effetti, i due film sono sensibilmente diversi, e non soltanto per le evidenti discrepanze stilistiche – con Il deserto rosso Antonioni inizia a girare a colori –, ma anche, e soprattutto, per l’esigenza profonda che li abita. È lo stesso Antonioni a marcare lo stacco: «C’è una ragione che mi fa considerare Deserto rosso come molto differente rispetto ai miei film precedenti: non parla di sentimenti. Arrivo a dire che i sentimenti non vi hanno niente a che vedere» (Tinazzi 2013).
Mentre ne L’avventura, come nei film precedenti e negli altri due che compongono la tetralogia, ovvero La notte (1961) e L’eclisse (1962), a trovarsi al centro dell’indagine del regista sono i personaggi con le loro relazioni e sentimenti, – «l’uomo di fronte all’uomo» (ibidem) – a partire da Il deserto rosso in poi Antonioni, pur non rifiutando le conclusioni a cui era giunto precedentemente, sposta l’asse della sua poetica dal rapporto uomo-uomo al rapporto tra i personaggi e il loro humus sociale – «l’uomo di fronte all’ambiente» (ibidem). Continua Antonioni: «Prima erano i rapporti dei personaggi tra di loro che mi interessavano. Qui, il personaggio centrale è confrontato parimenti con il retroterra sociale, e questo fa sì che io tratti la mia storia in un modo assai diverso» (ibidem).
Mentre, dunque, l’architettura cinematografica allestita ne L’avventura dà luogo a una visione del silenzio figlia della disperazione che nasce dall’impossibilità di una interazione autentica tra i personaggi, inabili come sono a comunicare con le parole le proprio ansie, le proprie paure, le proprie speranze, i propri sentimenti a chi è loro più vicino; la visione del silenzio de Il deserto rosso matura da una consapevolezza se si vuole ancor più terribile: l’ambiente umano, il suo «retroterra sociale» (in questo caso la fabbrica e la città di Ravenna), è diventato ostile all’uomo stesso, è sordo alle sue esigenze, lo getta in un senso di profonda, inquietante e desertica estraneità.
Come può, del resto, il frenetico e assordante rumore delle macchine (che producono incessantemente) accordarsi al ritmo lento e sconnesso di un uomo che non ha più solide certezze a cui aggrapparsi? Basterà la religione della produzione e del consumo a soddisfare l’esigenza umana di un nuovo accordo tra uomo e uomo e tra l’uomo e il suo ambiente? Sono queste le domande che Antonioni comincia a farsi ne Il deserto rosso, che iniziano a orientare il focus della sua poetica sui temi che saranno poi centrali nei film successivi, e che confluiscono nella feroce critica mossa alla società consumistica in Zabriskie Point (1970), vertice artistico di questa esigenza.
La mostra Antonioni e Vitti. Una storia d’amore e di cinema, grazie a un’accurata messa in forma plastica del dialogo tra Appetito e Antonioni, contribuisce a fissare e riconoscere gli elementi architettonici che compongono le due diverse visioni del silenzio cui danno luogo i due film L’avventura e Il deserto rosso.
Riferimenti bibliografici
M. Antonioni, The Architecture of Vision. Writing & Interviews on Cinema, Marsilio, Chicago University Press, New York 2007.
G. Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro, Milano 2013 (versione ebook).
Antonioni e Vitti. Una storia d’amore e di cinema. Sui set 1959-1964. Fotografie di Enrico Appetito, a cura di Tempi Moderni, 8 ottobre 2022 – 13 novembre 2022, Complesso San Michele di Salerno.