Trovo [La maman et la putain] un film merdoso […]
Lo trovo un non-film, non-filmato da un non-cineasta
e recitato da un non-attore.
Gilles Jacob, critico cinematografico (1973).
Ho potuto vedere La maman et la putain solo 50 anni dopo la sua uscita nel 1973. Strano, perché allora vivevo a Parigi e la mia vita era per certi versi molto simile a quella di Alexandre, il giovane protagonista del film, interpretato dall’attore iconico del cinema francese dell’epoca, l’efebico Jean-Pierre Léaud. Ma allora, studente universitario a Parigi, snobbavo i film francesi: li vedevo troppo vicini alla mia vita di allora, avevo bisogno di distanza da me.
Per questa ragione non posso parlarne da storico o critico del cinema distaccato. La maman et la putain è un documentario su una fetta della gioventù intellettuale dell’epoca, e soprattutto di quella che viveva a Parigi. Insomma, il film mi faceva il ritratto, non posso avere la distanza blasée di chi guarda dall’alto della Storia. Del resto, come vedremo, era anche il ritratto del regista.
Come nel film, all’epoca si fumavano sempre Gauloises, o ancor peggio Gitanes. Quante sigarette si accendono e si fumano nei film Novelle Vague! Non era così nei film “normali”, fumare una sigaretta era considerato un atto troppo banale da rappresentare. Si viaggiava su quei vecchi scassoni degli autobus parigini, che avevano ancora il predellino con una catenella di metallo che lo chiudeva durante la corsa. Si passava parte della giornata nei caffè, i bistrot, così comodi con le poltroncine di cuoio, tanti specchi dappertutto, dove si leggevano libri e si scriveva, si chiacchierava senza fine e si flirtava con ragazze incontrate per caso. Quanti libri famosi sono stati scritti nei bistrot di Parigi! L’alcolico di rigore era scotch-whisky, ma non si disdegnava l’anise nazionale Pernod Ricard. Poi ci si alzava per sgranchirsi giocando a flipper. A Parigi all’epoca si passava più tempo al bistrot che a casa, e ci si poteva imbattere in grandi personalità. Nel film due protagoinisti incontrano in un café Sartre, che chiamano “l’ubriacone” – Sartre vero, non un attore che fa Sartre.
Dopo le due del pomeriggio si comprava Le monde, che allora ci sembrava il miglior giornale al mondo, austero, senza foto, lo si centellinava ai tavolini dei bar. Talvolta si leggeva ridendo anche Charlie Hebdo. E poi si incontravano nostre coetanee non molto diverse da quelle che si vedono nel film, ragazze che accettavano spesso di fare sesso subito, la sera stessa, dopo aver parlato di Barthes e di Lacan. All’epoca, come si vede nel film, la promiscuità sessuale non era celata, furtiva, peccaminosa, ma dichiarata, rivendicata di fronte all’amato o all’amata, “ideologica” direi. E come si vede nel film, c’erano anche scenate di gelosia, ogni tanto, quando l’altrui infedeltà toccava punti troppo nevralgici: ma esse avevano una sorta di ritualità, che non portava a scene di disperazione o di sprofondo, avevano un sapore di messinscena doverosa. E i triangoli – nel film, tra Alexandre, una donna più anziana (Marie, la mamma) e una giovane (Veronika, la cosiddetta puttana) – non erano affatto rari. Un uomo con due donne, o una donna con due uomini. Partouze, lo si chiamava in Francia.
Mi ha colpito il fatto che in tutti i paesi in cui il film è stato distribuito, il titolo è rimasto sempre quello francese. Forse perché il termine putain è più accettabile in francese che nella propria lingua. Un titolo misogino del resto, perché “la puttana” del film non è una prostituta, è una che va con tanti uomini. Ma credo che il titolo resti sempre lo stesso perché è un film sulla vita parigina dell’epoca che si poteva girare solo a Parigi. Diciamo che è un film intraducibile.
L’Alexandre del film è un giovane colto che non fa nulla – e qui c’è una differenza con me, dato che io studiavo e, anche se in modo intermittente, lavoravo. Non ha un soldo, eppure a suo modo vive una vita lussuosa. Dà appuntamenti nei café più famosi, Flore e Deux-Magots a St. Germain-dès-Près, la Coupole. Quando rimorchia Veronika, infermiera di origine polacca, la porta in uno dei più lussuosi ristoranti di Parigi, Le train bleu, monumento Belle Epoque che si trova dentro la stazione ferroviaria gare de Lyon. Marie, l’amante-mamma, gli passa i soldi, lui prende in prestito l’auto da amici, talvolta si fa pagare dalle ragazze stesse. Nel film non si vede, ma è verosimile che egli di tanto in tanto rubi. Rubare libri e oggetti nei supermarket era ammesso dall’etica sessantottarda dell’epoca. Louis Althusser, per esempio, andava con amici nelle librerie a rubare libri, anche se il suo stipendio di professore all’École normale doveva essergli sufficiente per comprarli, ma all’epoca era il costume. Del resto Althusser nei periodi maniacali, ovvero di euforia quasi furiosa, ne faceva di tutti i colori.
Anch’io ho rubato talvolta libri, i miei principi etici d’emergenza mi permettevano anche di rubare schiuma da barba e dopobarba, non oltre. Ma per mesi ebbi una fidanzata che, pur essendo normalienne (accettata all’École normale supérieure, empireo della carriera studentesca), rubava sistematicamente: riempiva il carrello di ogni ben di Dio e poi se ne usciva come se nulla fosse, e senza che nessuno badasse a fermarla.
Anche io, come Alexandre, vivevo qualcosa che chiamerei una miseria gloriosa. Oggettivamente avevo pochi soldi, eppure non ricordo quegli anni parigini affatto come anni di stenti. Spesso andavo con gli amici in un rinomato ristorante cinese, vedevo tutti i film che volevo vedere (talvolta anche due al giorno), gli spettacoli di teatro importanti, leggevo i libri a sbafo nelle librerie oppure nelle biblioteche, andavo nei bistrot che mi piacevano. Come facevo a vivere in una sorta di lusso pur non avendo soldi? Oggi me lo chiedo stupito. Mi ricorda la canzone famosa di Charles Aznavour, La bohème: «Et nous vivions de l’air du temps».
Si viveva insomma d’aria, che era però l’aria della città e del tempo, per cui ci si concedeva il meglio del meglio offerto all’epoca: i seminari di Derrida e di Foucault, le manifestazioni politiche febbrili, le chicche delle due cinemateche di Parigi. Avevamo un’offerta smisurata di film di ogni epoca, in questo Parigi – la metropoli con più cinema al mondo – era un unicum. Vita domestica misera, vita pubblica sfavillante. E anche nel film, Alexandre, dopo aver corteggiato una bella al Flore, ritorna nella propria casetta piccola e fatiscente. Si capisce perché il primo titolo pensato per il film fosse Du pain et des Rolls, Pane e Rolls-Royce.
La maman et la putain è girato rigorosamente nello stile della Nouvelle Vague, con la quale ormai si intende soprattutto il trio Godard-Truffaut-Rohmer (a cui si aggancia talvolta anche Malle, il cui stile però era più hollywoodiano). Si suol dire che questo film è il bel canto del cigno della Nouvelle Vague. All’epoca a molti la Nouvelle Vague non piaceva perché combinava due stili che apparivano opposti: un realismo da cinéma vérité nelle riprese, un raffinato garbo letterario nelle conversazioni. Il setting cinematografico era minimo: niente luci di scena, la folla di sfondo sono veri passanti che ignorano di essere ripresi, si sentono i rumori del traffico e dei clacson, i volti delle donne non sono abbelliti né truccati per la cinepresa. Sembra un cinema allo stato brado, da dilettanti che filmano con la superotto.
La Nouvelle Vague sembrava riprendere la spregiudicatezza del neorealismo italiano. Solo che quest’ultimo si voleva anche un rovesciamento della scala del prestigio, per cui oggetto del neorealismo erano i left behind, operai, plebi urbane, contadini, sottoproletari. Alla povertà del set cinematografico corrispondeva la povertà degli oggetti dei film. Oggetto della Nouvelle Vague invece è per lo più il mondo dei registi e attori stessi: la Parigi avanguardista in quegli anni ruggenti dello strutturalismo, popolata da intellettuali squattrinati in cerca di gloria. Il neorealismo guardava a gruppi sociali massimamente lontani dai cineasti, la Nouvelle Vague guardava al mondo dei cineasti stessi. E in effetti La maman et la putain è anch’esso auto-referenziale.
In questo quadro verista gli attori recitano in modo mai naturalistico, mai drammatizzante, ligi alle premesse del distanziamento brechtiano. «Jean-Pierre Léaud recita finto e resta finito» (Bory 1973, p. 79). Gli attori parlano spesso come libri stampati, e magari leggono loro stessi brani di libri stampati. Si vedono molti libri sfogliati nei film Nouvelle Vague. Spesso gli attori vanno al cinema, e guardano film che noi guardiamo come film nel film. Insomma, conversazione raffinata e inverosimile, background che non nasconde la povertà.
All’epoca, soprattutto in Italia, andava forte il significante povero. C’era il “teatro povero” (Grotowski, Barba, Living Theatre…) e l’”arte povera” lanciata da Celant. Il film che Eustache ha girato a 34 anni appare anch’esso povero. È girato in un bianco-e-nero granuloso, senza un set vero e proprio. Eustache era rampollo di una famiglia operaia, autodidatta, aveva lavorato come ferroviere. I suoi maestri, diceva, erano i fratelli Lumière, come dire, il cinema dell’età della pietra. C’era una sola ripresa per ogni scena: la prima ripresa era anche quella finale. Come a voler risparmiare al massimo la pellicola.
Insomma, il film ha un’aria deliziosamente amatoriale. È “la comitiva” – come si chiamava all’epoca il gruppo di amici – che si auto-filma. Il regista usa come attrici delle donne con cui ha o ha avuto effettivamente una relazione, anche se non interpretano sé stesse. Eustache aveva rotto una love story con l’attrice Françoise Lebrun, che qui però col nome di Veronika fa la parte di una donna che non appare nel film, la polacca Marinka. Quanto al personaggio della Lebrun, questo è invece recitato da un’altra attrice (Isabelle Weingarten), mentre il ruolo della “mamma” Marie – nella realtà la costumista del film, Catherine Garnier – è recitato da Bernadette Lafont… In questo scambio delle parti tra attrici e donne reali, il film sembra fare il verso a uno psicodramma alla Moreno, dove si recitano situazioni reali invertendo però i ruoli. In fondo, in questo film mi sono sentito documentato perché il regista documenta sé stesso.
A differenza dei film di Hollywood, dove brani e canzoni musicali si inseriscono nella trama come brevi intermezzi, punteggiature del film, nella Nouvelle Vague se c’è una canzone, allora bisognerà ascoltarla fino alla fine. Bella la lunga scena in cui la donna più matura, Marie, sdraiata su un materasso sfatto adagiato per terra, ascolta triste una canzone di Piaf, “Les amants de Paris”, che esce rauca da un vinile in un grammofono gracchiante. Il regista ci fa sentire la canzone fino alla fine.
In 3 ore e 45 minuti di questo film “tenebroso, chiacchierone, alcolizzato” (Neuhoff 2017), quel che ci affascina è la conversazione, o meglio la verve del protagonista nullafacente, che sembra fondere arroganza letteraria e disarmante auto-ironia. Il film è pieno di mots d’auteur – concetto evocato nel film stesso – scintillanti e mai banali. È il trionfo del cinema d’autore di cui la Nouvelle Vague è stata l’apice: un’idea aristocratica di cinema che rinuncia a voler sedurre il pubblico con effetti accattivanti.
Sedurre con la testa, non con le viscere. E questo è un altro paradosso: che fu in realtà proprio la Nouvelle Vague, in particolare il suo organo mediatico Cahiers du cinéma, a dare un lustro cinefilo al grande cinema popolare americano. All’epoca, noi spettatori polarizzati sulla Nouvelle Vague amavamo molto certo cinema “commerciale”. Quando Truffaut andò nel 1962 in America per intervistare Hitchcock – da cui uscì uno dei testi fondamentali sul cinema – i critici colti americani, egg heads, erano basiti: per loro Hitchcock era solo un regista di thriller per famiglie medie americane girati per fare molti soldi.
Stranamente furono questi critici e cineasti chic a scoprire il grande cinema popolare hollywoodiano. Eppure quei film francesi invece non cercavano affatto di imitare il cinema hollywoodiano, piuttosto lo parodizzavano in modo sottile. Godard, per esempio, ricreava situazioni molto simili a quelle dei thriller americani mozzafiato, ma toglieva il mozzafiato. Ciò che a Los Angeles era atto, a Parigi diventava solo segno. Proprio Godard diceva che basta una donna e una pistola per fare un film. Truffaut diceva che bastava avere una bellissima donna da filmare, e il film era fatto.
Il clou di La maman et la putain non sono false sparatorie ma un monologo lunghissimo di Veronika (la puttana) immobile di fronte a una cinepresa immobile. Françoise Lebrun, che fa la parte dell’infermiera polacca, parla e piange. La semplicità della sua disperazione si contrappone alla sofisticazione del linguaggio di Alexandre: il suo monologo non è modulato, non è “da grande attrice”, è una nenia con un tono sempre eguale, cattiva recitazione insomma, perché non è recitazione. Il monologo sulla sua vita di emigrata che affoga nel sesso una sorta di mancanza nucleare ci commuove proprio perché non è d’arte. È come se in questa parte finale le esigenze contraddittorie della Nouvelle Vague – un cinema-verità allo stato brado, un “cinema da camera” come si dice musica da camera, e una recitazione estraniata ed estraniante – confluissero in qualcosa che finalmente commuove. Un lamento femminile sul sesso, la maternità, l’amore, la morte.
E in effetti un alone di suicidio fa da scia a questo film. Poco dopo la sua uscita si suicidò Catherine Garnier, la mamma “Marie” nel film, perché distrutta dalla morte della madre, pare. Nel 1981 Jean Eustache cadde da una terrazza in Grecia, e gli si disse che sarebbe rimasto zoppo a vita. Dopo di che anche lui si uccise, a 43 anni. Fu l’offesa di diventare claudicante a costringerlo al suicidio? Può darsi. A me piace pensare però che, malgrado la sua popolarità, Eustache abbia sentito che l’epoca della miseria gloriosa, l’epoca della vita alternativa, la sua epoca, era finita. Anche per me, La maman et la putain è il documento di un congedo.
Riferimenti bibliografici
J.-L. Bory, Romance d’un jeune homme pauvre, in “Le Nouvel Observateur”, Maggio 1973.
E. Neuhoff, Jean Eustache revient à lui, in “Le Figaro”, Maggio 2017.
La maman et la putain. Regia: Jean Eustache; sceneggiatura: Jean Eustache; fotografia: Pierre Lhomme; montaggio: Denise de Casabianca, Jean Eustache; musiche: Hildur Guðnadóttir; interpreti: Bernadette Lafont, Jean-Pierre Léaud, Françoise Lebrun, Isabelle Weingarten; produzione: Elite Films, Ciné Qua Non, Les Films du Losange, Simar Films, V.M. Productions; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Francia; durata: 220’; anno: 1973.