Come nel diario del lutto barthesiano, dove lei non è indica il luogo di un compito paradossale: è il posto dove (continuare a) vivere risulta (im)possibile, come lo scambio impraticabile tra l’altrove che vorremmo fosse qui e l’allora che vorremmo fosse ora. È ciò che hanno intuito benissimo gli autori di Dark, Baran bo Odar e Jantje Friese, nella loro co-implicazione narrativa di spazio, tempo e memoria, ripresa anche nella recente 1899: What is Lost Will be Found, ciò che è perduto sarà ritrovato. Paradossalmente, ogni cosa è ritrovata proprio perché la dimensione originaria cui siamo destinati è quella della perdita, ma – ed è qui l’aspetto spiazzante della questione – ciò che viene ritrovato non viene riconosciuto, come accade a Maura Franklin con i suoi familiari.
È con simili, ineludibili e irresolubili, questioni “ultime” che si confronta Massimo Recalcati nel suo intenso volume La luce delle stelle morte, un saggio su lutto e melancolia, perdita e nostalgia. «Scomparire è una forma radicale della separazione» (Recalcati 2022, p. 24), è il momento in cui la separazione sconfina nel regno del lutto e della perdita: coloro che si separano, come insegnano i Frammenti di un discorso amoroso (1977) di Roland Barthes, diventano a conti fatti come due navicelle che si allontanano nello spazio e non captano più i messaggi l’una dell’altra. Ci si separa non solo dall’oggetto perduto, ma da una parte di se stessi, precisamente da «quella parte che aveva aderito di più all’oggetto confondendosi con esso» (ivi, p. 27).
Poiché l’amore divide internamente, la sua perdita mette di fronte al resto insopprimibile di quella divisione; l’abbandono subìto sostanzializza il vuoto, cosicché lo spazio interiore si costruisce attorno a quella perdita. Se «il paese del corpo dell’Altro» (ivi, p. 29) è scomparso dalla mappa, non si può che navigare in un mare di nebbie. È la concretizzazione angosciosa della risposta affermativa alla domanda d’amore fondamentale: «Puoi perdermi?» (ivi, p. 33). Non mancarle più, non mancargli più, vuol dire “non essere più attesi”, vuol dire che nessuno, nessuna attende più il ritorno, che nessuna, nessuno ritornerà. L’attesa si fa beckettiana, si fa senza fine, mentre la fine si fa interminabile, espandendo a macchia d’olio il regno della melancolia. La verità – sottolinea Recalcati – è che la sparizione dell’altro non coincide con la separazione da esso, tutt’altro: «Il dolore del lutto mostra che l’oggetto perduto è ancora presente, che è un’ombra che aderisce alla nostra vita» (ivi, p. 45). L’assenza diventa una presenza fantasmatica, come il brillio della luce di una stella morta, traccia che è resto ed è eccedenza – d’amore e di mancanza.
Vengono in mente i versi di Rilke: «Oh, come tutto è lontano / e da gran tempo trascorso. / La stella, credo, / da cui ricevo splendore, / è morta da millenni. / […] / E di tutte le stelle una dovrebbe / avere ancora realtà. / Io credo di sapere / qual è la stella / che unica dura, – / che sta come una città bianca / là dove il raggio ha termine nei cieli…». In Lamento, la ricerca rilkiana di una connessione con un altrove, spaziale e temporale, avviene per via di un’intuizione dell’eterno, di quell’eternità che è la destinazione temporale del desiderio pur nella sua scaturigine mortale.
Tuttavia, questa persistenza di ciò che ci ha lasciato porta con sé la frustrazione dell’inattingibilità, l’assentarsi di ogni forma di presenza, per cui la scomparsa è solo l’attestazione estrema di un perenne svanire, di una continua sottrazione dell’Altro. È quanto sembra dirci Murakami Haruki in uno dei suoi primi romanzi, utilizzando anch’egli, non a caso, l’immagine della stella morta:
«“Quando ti guardo, a volte mi sembra di vedere una stella lontana”, dissi. “Sembra che brilli, ma è una luce di decine di migliaia di anni fa. Forse è la luce di un astro che ora non esiste più, ma a volte sembra più reale di tutto il resto”. [...] “Tu sei lì”, continuai. “Cioè, sembra che tu sia lì, ma in realtà non ci sei. Quella che si vede è solo la tua ombra, mentre tu sei da qualche altra parte. Oppure sei scomparsa tantissimo tempo fa, questo non lo so. Tendo la mano per accertarmi che ci sei, e tu ti nascondi dietro quei “forse” e quei “per un po”. Fino a quando hai intenzione di continuare così?» (Murakami 2014, p. 162).
La domanda che si pone il melancolico, l’abbandonato, il lasciato indietro è dunque: “Fino a quando dovrò scontare la tua presenza assente?”. Probabilmente per sempre, ma è questo il cuore della distanza tra la posizione freudiana sul lutto e quella recalcatiana. Ci arriveremo, ma basti qui accennare che ciò che permette a Recalcati questo “superamento di Freud” è l’approccio con la dimensione esistenziale del desiderio nostalgico, oltreché, oseremmo dire, un maggior coraggio “biografico” nell’attraversare il fantasma e nell’accettare di vivere in una “casa degli spiriti”.
L’ingresso nella dimensione spettrale, sotto forma di viaggio in qualche forma di Ade, è un topos irrinunciabile dall’epica alla letteratura fantasy, ma, fuor di metafora, il senso di una psicanalisi del lutto esistenzialmente feconda va ricercato in un oltrepassamento del dolore che tuttavia lo conserva. Più che un tratto hegeliano, possiamo qui cogliere la profonda eredità lacaniana di Recalcati, per cui attraversare il fantasma (scendere nell’Ade come Orfeo) significa ritrovarsi nuovamente divisi, in mancanza dell’Altro, in un presente allo stesso tempo rammemorante e generativo – meglio, rigenerativo perché reminiscente.
Recalcati aveva, a dire il vero, abbordato il tema della melancolia già tre anni addietro, nel suo Le nuove melanconie, densissimo saggio in cui aveva tratteggiato una cronologia delle emergenze cliniche dal secolo breve ai giorni nostri: dalla paranoia novecentesca alla sindrome maniacale a cavallo tra i millenni, fino alla ricaduta melancolica dei primi decenni del XXI secolo. Si tratta, secondo Recalcati, di nuove melanconie, generate da un intollerabile senso di vuoto, o, più espressamente, dall’intollerabilità del vuoto angoscioso dell’esistenza. La mancanza si fa vuoto da riempire incessantemente, attraverso l’attaccamento a gadget feticistici o la ricerca spasmodica di connessioni virtuali, ma ogni tentativo di saturare l’assenza è destinato irrimediabilmente a fallire: di qui, l’inevitabile esito malinconico per il soggetto ipermoderno.
Non si tratta di un rigurgito delle paranoie novecentesche, né tantomeno di una riproposizione della forma classica della malinconia intesa come senso di colpa verso l’oggetto perduto. Siamo piuttosto di fronte a una chiusura dell’esistenza, che si sostanzia nella tentazione del muro (da erigere di fronte all’alterità ingovernabile), nell’assenza di desiderio e, in ultima istanza, nella carenza del sentimento vitale. In altri termini, si rinuncia alla vita per tema del vuoto e del suo portato di angoscia, per paura della corda tesa su di un abisso senza certezze, e, in ragione di questi timori, si rinuncia a mettersi in cammino. Ma, a conti fatti, il timore del vuoto è angoscia di fronte all’assenza: «Le nuove melanconie vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio della perdita sottraendolo all’esperienza dell’assenza» (Recalcati 2019, p. 2).
La melanconia classica, secondo la formulazione freudiana, che vede il lutto caratterizzato dall’identificazione inconscia all’oggetto perduto, prevede la possibilità che il lutto possa terminare, con il ritorno della libido perduta nelle disponibilità del soggetto, attraverso un lavoro di “simbolizzazione” del trauma. Quando l’oggetto, al culmine dell’idealizzazione identificatoria di quanto è stato perduto, rappresenta per il soggetto tutto, il soggetto stesso si riduce a niente. Il vissuto melancolico è segnato, perciò, dal “trionfo dell’oggetto”. In questo senso, la presenza si fa più assoluta non nonostante la perdita, ma in virtù della perdita. Questa forma estrema di idealizzazione dell’oggetto perduto è, in realtà, un modo di “schivare” il lutto, di esorcizzare la mancanza, per così dire, cronicizzandola. Una modalità speculare di evitamento del lutto consiste, secondo il Freud di Lutto e melanconia (1917), nel processo di de-idealizzazione, ossia nella negazione maniacale dell’importanza della perdita e dell’altro stesso.
A queste modalità “evitanti” di confronto con il lutto, Freud oppone la necessità del lavoro del lutto, ma è qui che il percorso di Recalcati diverge, approfondendo, sulla scorta di Nietzsche, il portato “tragico” di questo lavoro psichico. Ci viene così proposta l’immagine del corpo morto del funambolo portato sulle spalle dallo Zarathustra nietzschiano. Dire “Sì” alla vita, camminare su una corda tesa, andare verso l’oltrepassamento di se stessi, significa anche accogliere l’imprevedibilità del caso e l’irruzione ingovernabile della morte. Per Recalcati, il «cammino di Zarathustra nel buio della foresta e della notte con il cadavere del funambolo alle spalle, è una potente immagine del lavoro del lutto» (Recalcati 2022, p. 67). Portiamo sempre sulle spalle chi abbiamo amato ed è caduto, chi abbiamo amato ed è perduto, chi abbiamo amato ed ha perduto “l’anima e le ali”.
Il lavoro del lutto consiste, per Recalcati, nel tradurre la scomparsa (prima morte) in separazione dall’oggetto perduto (seconda morte). La separazione, tuttavia, non coincide, come vorrebbe Freud, con il lasciare andare per sempre l’oggetto, ma con l’introiezione di quest’ultimo. Ciò è possibile attraverso l’opera della memoria, del dolore, del tempo. Se è vero, come ha scritto qualcuno, che ci sono persone che smettono di soffrire solo per iniziare a soffrire più a fondo, ciò, forse, significa che il viaggio al termine della notte non ha termine; tuttavia, quella notte è stellata, trapunta di memorie. «Io non credo davvero / che quel tempo ritorni / ma ricordo quei giorni […]», cantava Guccini. È questo un particolare tipo di oblio, che non evita la memoria dell’oggetto, ma la elabora e la introietta. La traccia rimasta è il resto che non passa, “e qualcosa rimane”. Quel qualcosa è ciò da cui può gemmare la poesia, generarsi il desiderio.
Cambia a questo punto anche l’orizzonte temporale del sentimento, che, da luttuoso e melancolico, diviene nostalgico e desiderante. Come detto prima, è la nostalgia che permette di risemantizzare la perdita e la melancolia da essa generata. Se per Freud al lutto si pone fine con la trasformazione del vissuto melancolico e la scomparsa della traccia affettiva della perdita, per Recalcati il (lavoro del) lutto risulta in qualche modo “interminabile” in virtù della permanenza dell’oggetto perduto e introiettato. Questo segno incancellabile non ha più però una caratterizzazione melancolico-regressiva, ma nostalgico-generativa. Chi è andato via, resta in qualche modo sempre con noi.
Diventa così possibile orientare il desiderio nostalgico verso il futuro, andando avanti senza l’altro ma portandolo comunque nella nostra vita. “Portatemi con voi”, è lo scarno messaggio di addio di un filosofo ai suoi amici e allievi. Recalcati intuisce bene, rifacendosi a Vito Teti, come la nostalgia, per schivare il rischio di diventare mortifera e, in fin dei conti, anti-vita, debba mettersi in cammino, “strada per strada”. Più che al Teti di Nostalgia, va, a mio avviso, però, fatto riferimento a quello de La Restanza (2022): «Camminare, viaggiare, restare: esserci ed essere insieme, sempre qui, sempre “dentro il luogo”, sempre “fuori luogo”» (Teti 2022, p. 116).
Come ho scritto altrove, chi è perso tra le strade del mondo non prova una versione esclusivamente nostalgica del desiderio, inteso come mancanza lacerante; prova anche, intensamente, un desiderio rivolto al presente. E in verità, ci dice Teti, anche chi rimane prova dolore per qualcosa di perduto, per la mancanza che scava dentro la sua anima, per l’altrove che abita ciascuno di noi. La restanza è, perciò, una categoria antropologica dalla forte carica etica. È il compito di abitare un luogo nonostante lo spaesamento che ci abita, nonostante l’esilio cui siamo consegnati. Riguarda il viaggio da fermo di chi resta e il radicamento di chi parte. Come nei versi di Caproni, un “biglietto lasciato prima di non andar via”: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai» (Caproni 2001, p. 427).
Dunque, una “nostalgia mobile”, radicata in un presente rammemorante ma orientata verso il futuro: «La nostalgia, più che rivolgersi regressivamente verso ciò che è già stato, può assumere le forme avventurose di una forza che ci sospinge verso ciò che non è mai stato, che non è ancora avvenuto, che non abbiamo mai visto. Più che rammemorare il “paradiso perduto” nel passato, questa seconda forma di nostalgia anima il desiderio dell’altrove come desiderio nuovo» (Recalcati 2022, p. 18). Lo vediamo espresso drammaticamente in È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino: solo andando avanti si può preservare il passato, solo lasciando Napoli la si può tenere con sé.
Certo, è una hauntology diversa da quella fisheriana, non è una nostalgia dei futuri perduti o una retromania à la Reynolds. Semmai, Recalcati fa risuonare fortissima un’eco benjaminiana: l’Angelo della storia che volge lo sguardo alle macerie del passato per riscattarne la sorte mentre il vento lo trascina inesorabilmente verso il futuro. È l’opera salvifica del “già stato” che si fa “ancora” per ricomporre l’infranto. I frantumi dell’esistenza, di cui Recalcati parla in toni accorati: la voce dell’amico Claudio Lolli nelle sue canzoni, o quella di Giulia Terzaghi, insegnante delle superiori di Recalcati – “Massimo, resta lucido!” non risuona forse con il “Non ti disunire, Fabio!” del Capuano di Sorrentino?
Infine è la mancanza, che prende in mano il trenino del passato e ne rivolge la tensione irrisolvibile verso il futuro. Il trenino, nella sua modestia di giocattolo, non ha bisogno di tenere le spalle rivolte al passato come l’Angelo della storia, perché trasporta dall’infanzia un carico di memorie – tutto il senso del tempo trascorso –, quel tempo che rinascerà a vita nuova. Vi è infatti un desiderio inestirpabile al cuore della nostalgia: «Nel vissuto nostalgico chi scompare non scompare mai del tutto» (Recalcati 2022, p. 89).
Riferimenti bibliografici
G. Caproni, L’opera in versi, Mondadori, Milano 2001.
H. Murakami, A sud del confine, a ovest del sole, Einaudi, Torino 2014.
M. Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.
R.M. Rilke, Poesie. I: 1895-1908, Einaudi, Torino 1994.
V. Teti, La restanza, Einaudi, Torino 2022.
Massimo Recalcati, La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Feltrinelli, Milano 2022.