Davanti allo sfacelo del tempo che scorre, quando ormai si è ospiti di una civiltà percepita come quasi del tutto estranea, capita che l’opera tarda dell’artista o del pensatore riesca a condensarne per un’ultima volta i temi principali, le intuizioni disseminate nei diversi lavori, i risvolti lasciati impliciti o forse soltanto accennati. Come nello stretto che conclude una fuga, il soggetto e la risposta sviluppati lungo il corso dell’opera vengono infine ribaditi ma in maniera più serrata, quasi che l’ansia di non riuscire a esprimere tutto ciò che si desidera spinga a un’esposizione concitata.

Questa atmosfera è presente in alcuni degli ultimi saggi di Giorgio Agamben che, portato a termine il ciclo Homo sacer, non rinuncia a specificare e rielaborare alcuni nodi teorici che già da tempo sono al centro del suo pensiero, ritornandovi da strade diverse e insieme cercando di andare all’essenziale del suo stesso itinerario teorico. L’urgenza della domanda si coglie pienamente al termine del volume La lingua che resta: se «tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose e delle parole che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno si dimenticano è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerne i registri» allora occorre chiedersi «che cosa resta, alla fine?» (Agamben 2024, pp. 143-144).

La domanda può apparire sotto una luce mesta e malinconica che però è il saggio stesso a dissipare, andando alla ricerca di una risposta che non si rifugi nella nostalgia dei bei tempi andati ma che sappia far brillare, nel momento estremo, una stella non ancora intravista. A partire da questo interrogativo, «che cosa resta, alla fine?», è possibile cogliere retrospettivamente il carattere unitario della riflessione che il filosofo articola nei sette capitoli – in realtà sette brevi saggi relativamente autonomi – che compongono il volume.

In primo luogo, Agamben indaga le implicazioni teologiche di un sapere apparentemente laico e mondano come la storiografia. «È stato il cristianesimo a costruire lo historikon che noi conosciamo come oggetto possibile dell’indagine storica» (ivi, pp. 22-23) e anche se la secolarizzazione ha espulso dal suo modo di raffigurare e considerare il tempo ogni evidente riferimento religioso, ne ha conservato inconsapevolmente alcuni presupposti che non cessano di orientare e determinare il modo in cui concepiamo la storia. Pur non credendo più in un suo intrinseco finalismo, e tanto meno in una salvezza finale, la modernità abbraccia ancora un paradigma – la linearità del tempo – che impone una direzione di sviluppo. Il conducente è stato cacciato (o se ne è andato) ma i passeggeri continuano inavvertitamente a percorrere un tragitto scandito da stazioni, fermate e capolinea.

La dimensione teologica del tempo storico non è stata superata bensì rimossa: occorre allora esporne la struttura inconfondibile e riappropriarsi della natura escatologica dell’ora, della perenne attualità della salvezza, che non può essere rimandata a data da destinarsi. Ora è il momento della fine ma è anche il momento dell’inizio, che non deve essere proiettato all’indietro nel tempo come un’origine remota ma deve essere concepito come il continuo attualizzarsi di una potenzialità.

Il primato del presente viene sviluppato attraverso il recupero della nozione, anch’essa di matrice teologica, di ricapitolazione: «Ricapitolare significa, per l’individuo come per la collettività, adempiere il tempo, reintegrando e salvando ciò che è stato vissuto – o mancato – nella pienezza dell’istante presente» (ivi, p. 44). Agamben suggerisce di non concepire però la ricapitolazione come riassunto finale di ciò che si è verificato ma, in maniera sorprendente, come apparizione di ciò che nella nostra vita non è mai stato, di ciò che è rimasto non vissuto e solo in tal modo può essere consegnato a Dio. L’orizzonte escatologico di cui ci parla il filosofo non è allora il recupero del passato ma, tutto al contrario, la comparsa di qualcosa di assolutamente inedito: «Perché solo ciò che non è stato mai vissuto potrà un giorno – questo giorno, qui e ora – essere esaudito» (ivi, p. 52).

Il libro di Agamben è interamente giocato, in extremis, nello scontro tra le pretese – ragionevoli e mortifere – del vecchio e dell’origine contro l’insperato insorgere di una novità che non è mai stata. Così in uno dei molti snodi del discorso, affrontando le aporie dovute al dualismo tra la tradizione e la sua fonte, il filosofo esprime la necessità di avvicinarci al passato rendendoci disponibili a prestargli la nostra voce, in una ideale discesa agli inferi che permetta all’origine di essere viva e operante nel nostro presente.

Figura archeologica e ideale di questo contatto tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti è il mundus romano: «Secondo Plutarco, si chiamava mundus anche la fossa che Romolo aveva scavato al momento della fondazione di Roma e in cui erano state gettate delle primizie e una manciata di terra che ciascuno dei compagni di Romolo aveva portato dalla città da cui proveniva» (ivi, pp. 65-66). Luogo politico per antonomasia, addirittura fondativo della vita civile, il mundus è immagine di una soglia tra la città dei vivi e la città dei morti, tra passato e futuro, tra memoria e speranza. Attraverso il recupero di questa immagine, Agamben prova a ripensare in profondità la nozione heideggeriana di essere-nel-mondo come dimensione propria della vita umana colta nella sua temporalità, suggerendo così un modo per portare a compimento il programma, necessariamente irrealizzabile, di Essere e tempo.

La meditazione di Agamben sul tempo, colto nella sua scissione tra ‘già’ e ‘non ancora’, passa anche per una ricostruzione della dottrina teologica dell’Anticristo, la cui venuta dovrebbe precedere la fine dei tempi e la seconda venuta di Cristo. Di nuovo, ciò che va pensato non è la successione dei momenti, del passato e del futuro, ma la loro coincidenza, cioè il loro cadere insieme nel presente:

La loro coincidenza apre lo spazio dell’ora, del presente che tra il «già» e il «non ancora» aveva perduto il suo luogo. L’ora non è un intervallo misurabile nel tempo lineare fra un prima e un poi: il suo tempo è un gerundio, qualcosa come un «frattempo» o un «mentre», una simultaneità fra i due tempi che la teologia manteneva divisi. E quel «mentre» è il piccolo varco attraverso il quale, al di là della pretesa necessità dell’economia e dell’arbitrio dell’anomia, è possibile per ciascuno afferrare ogni volta il proprio tempo (ivi, p. 85).

La dotta indagine di Agamben passa poi in rassegna le diverse figure del tempo consegnateci dalla mitologia: il vecchio Chronos che tutto divora, il giovane Aion in cui il tempo mostra il suo legame inscindibile con la vita, l’alato Kairos che può essere acciuffato solamente incontrandolo faccia a faccia e non cercando di sorprenderlo alle spalle.

Compito impossibile, quello di acciuffare il kairos, se è vero che «il reale eccede costitutivamente se stesso, [e] che vi è sempre nel presente qualcosa che non riusciamo ad afferrare e a vivere e che rimane pertanto inesperibile e non vissuto» (ivi, pp. 120-121). Le due forme di questa eccedenza, il possibile e il ricordo, si ravvivano reciprocamente nella memoria, che non è più banalmente un recupero del passato ma l’apparizione di un istante trascorso sotto l’aspetto della sua potenzialità inattuata. Solamente in questo modo la memoria non è lavoro da imbalsamatori ma scoperta di una vita inesauribile.

Attraverso la nozione teologica di “resto” – come nell’espressione biblica ‘il resto di Israele’ – Agamben giunge infine a domandarsi qual è l’orizzonte escatologico, che cos’è che compare nell’ultimo giorno. Per “resto” si intende qui «l’impossibilità di qualcosa – dell’essere o della lingua – di coincidere con se stesso e con altro, cioè un principio che ostinatamente resiste all’identità» (ivi, p. 141), cosicché resto della lingua, una volta che le sue funzioni siano state rese inoperose, è la poesia, mentre resto della vita è tutto ciò che, indecidibile tra salvezza e rovina, «non è solo una parte di ciò che è perduto, è il suo nucleo più intimo e oscuro […] l’esigenza del dimenticato di restare, come tale, indimenticabile» (ivi, p. 144).

Il discorso di Agamben non evita alcuni accenni al presente e in particolare alcune stoccate che sottolineano la crisi politica attuale. Se però qui si decide di non insistere su questo punto – sebbene interessante e per certi versi in linea con l’immagine di critico radicale della contemporaneità, coltivata dal filosofo negli ultimi anni – è solamente per mettere in luce un aspetto più difficile da decifrare e però essenziale per la comprensione dell’ultimo Agamben: la natura teologica del suo pensiero. In un’epoca che programmaticamente espelle la teologia dal novero dei saperi scientifici, sottolineare la natura teologica dei presupposti inavvertiti su cui si fonda la nostra visione del tempo e della storia significa restituire a tale disciplina una centralità che essa non ha ormai da molto tempo, complice anche lo specialismo e l’orizzonte a volte strettamente confessionale in cui la teologia stessa si è rinserrata.

Ma la teologia che il filosofo Agamben reintroduce nel dibattito teorico attuale ha la capacità di suggerire una visione escatologica, relativa cioè alle cose ultime, originale e niente affatto dogmatica, spregiudicata e carica di implicazioni politiche, ovvero capace di influire sulle realtà penultime – quelle che costituiscono lo scenario della nostra vita.

Sviluppare le reciproche implicazioni delle due linee, teologica e politica, indicate da Agamben sarà uno dei compiti della filosofia che viene; dalla capacità di far apparire ciò che vi è di teologico nel politico e, viceversa, di mostrare l’impensato politico contenuto nel teologico, dipenderà il futuro di una filosofia all’altezza dei tempi.

Giorgio Agamben, La lingua che resta. Il tempo, la storia, il linguaggio, Einaudi, Torino 2024.

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