Ogni riga che possiamo pubblicare oggi
è una vittoria strappata
alle potenze delle tenebre,
per quanto sia incerto il futuro
a cui le consegniamo.
Lettera di W. Benjamin a G. Scholem,
gennaio 1940.
Un libro postumo di Walter Benjamin, sotto il titolo di Immagini di città, fu assemblato da Péter Szondi nel 1955. Qui c’è un resoconto benjaminiano di Marsiglia, città diventata, nell’ora buia dell’occupazione nazista in Europa, luogo di transito (insieme a Lisbona), dove gli “indesiderati d’Europa” (come recita il titolo del bel film su Benjamin di Fabrizio Ferraro del 2018) erano sospesi, spauriti, disambientati, spaesati in attesa di un visto per imbarcarsi. Un transito delle identità. Traffico di passaporti e visti, traffico ed esilio di individualità in una comunità, quella europea, in disgregazione ( come oggi con altre, non meno inquietanti, caratteristiche). Ma, anche quelle Marsiglia e Lisbona degli anni quaranta, luoghi “infidi”, labirintici, dove lo spiare, l’essere osservati e l’osservare, lo stato di allerta, confluivano in una sostanziale “disidentificazione” che aveva dell’ “oppiaceo”, cioè somigliava a uno stato alterato della coscienza di sé (del resto dal 1927 al 1933, tra Ibiza e Marsiglia, con alcuni amici tra cui Ernst Bloch, Benjamin assumeva hashish, per una serie di esperimenti sugli effetti psichici e fisici delle sostanze psicotrope).
Quella stessa città si inscrive nella costellazione destinale di Benjamin, proprio in quel transito che lo porterà a scomparire sul confine di Port Bou. Proprio a Marsiglia, nell’agosto del 1940, Walter Benjamin aveva ottenuto grazie a Max Horkheimer il visto per gli Stati Uniti, aveva quelli di transito per Spagna e Portogallo, ma non quello di uscita dalla Francia, e agli albori dell’occupazione tedesca di Parigi aveva affidato molti scritti a Georges Bataille, che li nascose alla Bibliothèque Nationale, e consegnato una valigia di manoscritti ad Hannah Arendt e Heinrich Blücher, non prima di offrire ad Arthur Koestler, come lui fuggiasco, una dose dello stupefacente che portava con sé.
Come in un “montaggio benjaminiano” queste suggestioni vengono messe “in figura”, obliquamente nella sua atmosfera, dal film di Christian Petzold Transit (uscito in Italia come La donna dello scrittore). La Marsiglia labirintica e percorsa da flâneur dell’identità, lo stato stranamente trasparente e insieme ambiguo dell’effetto oppiaceo, il “cuore nero” dell’Europa, il divenire-migrante, il divenire-altro, il transito delle identità, l’essere stranieri a se stessi, il destino della scrittura e delle immagini in fuga, benjaminianamente rese sempre “fuori tempo” e anacroniche, tra l’attimo e il suo prolungamento paradossale, tra l’immobilità e l’estremo choc della “mobilità”, della fuga, dell’imprendibilità dell’immagine, e della sua identificazione.
Nel film confluiscono in stato “anacronico” le prospettive di fuga verso un altrove e “l’orizzonte d’attesa” di una umanità transitante i confini geo-politici nel disegno incerto della propria identità, vista come mappa di un luogo sospeso che aderisce come un “estraneo” al proprio corpo. Fonte di ispirazione è il romanzo di Anna Seghers Transit (1944), il cui adattamento per lo schermo non a caso fu perseguito da un cineasta come Harun Farocki che nel 1966 rispondeva al questionario di ammissione alla scuola berlinese di cinema e televisione che chiedeva da quale romanzo si sarebbe voluto trarre un film indicando proprio il romanzo della Seghers, con l’intento di “mettere in parabola” e “rivestire” metaforicamente la realtà storica.
Petzold, amico e collaboratore di Farocki, dedica il film alla sua memoria, ricordando come spesso parlavano tra loro del romanzo. Comincia da qui una “vertigine” di scambi e di linee parallele che percorrono il film, come su tempi paradossalmente confluenti in una linea di fuga dissimmetrica. Se il protagonista del film, un uomo che fugge ai campi di concentramento, sottrae documenti e scritti, in seguito al naufragio di una nave, a uno scrittore suicida e ne assume l’identità (in uno slittamento non a caso immerso nelle aporie delle guerre e delle dittature come in Mr. Klein di Losey o in Professione: reporter di Antonioni, entrambi film come questo percorsi da un senso di spaesamento e dal transito in luoghi labirintici o svuotati e sospesi), è forse lo stesso Petzold che si inoltra in una sovrimpressione e in una dissolvenza di identità rispetto al film-fantasma che avrebbe voluto girare Farocki.
È probabilmente questa una chiave per comprendere il nucleo della trasposizione temporale figurata dal film. Nucleo vertiginoso, vortice oscuro, che pone noi spettatori in uno stato perturbante, dove rintracciare quanto siamo in grado di elaborare dentro di noi lo “straniero” che ci abita e che viene quotidianamente a naufragare sulle coste, perseguendo il transito, il passaggio, lo spossessamento identitario in una Europa contemporanea sempre più attraversata dalla paura: paura dell’altro che in fondo ci abita, freudianamente, come un “familiare” spostato, e perciò perturbante.
Che cosa fa Petzold? Filma le “trame” romanzesche (e di formazione e perdita dell’identità) lasciando intatti i riferimenti (nel plot e nei dialoghi) all’Europa occupata dai nazisti negli anni quaranta, alla Francia di Petain, alle trame di sorveglianza e persecuzione, ma senza alcuna ricostruzione. Non ci sono costumi d’epoca, Marsiglia e le sue strade sono quelle di oggi, c’è come una contemporaneità del passato, o forse una profezia della memoria. L’effetto è quello di implicarci in tale trama anacronica: siamo noi oggi (nell’Europa dei migranti) che riviviamo, come se avvenisse sotto i nostri occhi di contemporanei, la storia oscura d’Europa, le fughe, le attese, i transiti, le paure di allora, un allora che diventa, ancora benjaminianamente, un’ora, uno zeit.
Ma il film è anche una storia di incontri fantasmatici. Georg deve consegnare alla donna dello scrittore antinazista, Weidel, una lettera del marito. Arriva alla “città drogata”, a Marsiglia e dapprima incontra una donna “straniera” che vive con un bambino (il quale assumendo quello sguardo infante di cui parlava Benjamin in Infanzia berlinese (1950), vivendo l’essere “stranieri” a sé in un luogo “familiare ed esotico” a un tempo, come una avventura, si lega a Georg, a un compagno di giochi da cui non vuole separarsi), mentre gli appare continuamente, come una allucinazione da oppio, una donna, che lo ferma e lo induce a voltarsi e poi scompare come un fantasma.
Scoprirà che è lei la moglie dello scrittore, in stato di perenne attesa (come una Euridice del suo Orfeo) di essere tratta dagli inferi delle “immagini” che si aggrovigliano nella città. La donne non vuole credere che il marito sia morto; del resto Georg lo ha sostituito nella identità e si è addossato il destino di fuga. E come in una catena metonimica, il cui significante, il cui “posto vuoto”, è la fuga impossibile, il visto di transito, la partenza sulla nave (che viene destinata dapprima a Georg, poi all’amante della donna, un medico anch’egli in fuga, quindi alla donna stessa), ciò che viene rilanciata di continuo è l’identità, come riconoscimento e misconoscimento insieme. Lacanianamente il fantasma fa schermo all’abisso del reale, al cui fondo è interdetto il guardare, e che assume la forma dell’inabissamento, del naufragio (aprendo e chiudendo il film sulla stessa figura), dal momento che la nave dove si imbarca la donna farà naufragio, salvo a far riapparire, questa volta come phantome, la sua sembianza in un ennesimo fortuito incontro.
La “forma d’amore” allora (Georg è destinato a innamorarsi della donna dello scrittore) si inscrive in un processo di passage, in un transitare, in un bilico in cui si interlacciano i passati e i futuri, nella messa in forma di ciò che Didi-Huberman – che non per caso in L’oeil de l’histoire: Tome 2, Remontages du temps subi (2010) ha lavorato sulla restituzione in immagine, sul rimontaggio della Storia e delle sue aporie, in Harun Farocki – ha chiamato anacronismo delle immagini.
Hans Mayer, a proposito del libro benjaminiano, assemblato da Szondi, nota come già in Immagini di città, Benjamin operi «una ridefinizione dell’idea corrente di spazio e tempo. La lontananza dello spazio e la lontananza del futuro gli si rivelano non nel procedere bensì nel tornare indietro e nello sguardo retrospettivo» (Mayer 1993, p. 72). È anche il procedere del cinema: dispositivo passibile di un “va e vieni” nel tempo della Storia, di un procedere paradossale per cui lo sguardo sul passato è sospinto, come per l’Angelo della Storia, dal vento del futuro.
Questa coscienza del cinema, e della sua ambigua trasparenza “classica”, è una delle cifre (unitamente alla perlustrazione delle aporie storiche della Germania postbellica) di tutto il cinema di Petzold, da Barbara (2012), a Phoenix (2014), in cui non solo autori come Fassbinder e Franjou, già affascinati a loro tempo e modo dal cinema classico americano, ritornano nelle atmosfere, ma inoltre (e in questo film ciò è particolarmente evidente) si respira il clima di cineasti classici, e campioni dell’ambiguità della mise-en-scene, come il John Huston di Key Largo (1948) o di Beat the Devil (1953), oppure l’Hawks di To Have and Have Not (1944) o il Daves di Dark Passage (1947), o il Curtiz di Casablanca (1942).
In tal modo, rammemorando al presente, in un movimento di empatia e straniamento insieme, Petzold sembra riecheggiare quella “apocatastasi” invocata da Benjamin nei Passagenwerk in cui il compiuto e l’incompiuto, l’identità e il suo slittamento, si intersecano in una infinita confluenza e immissione del passato nel presente.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007.
G. Didi-Huberman, Remontages du temps subi. L’oeil de l’histoire, Les Editions de Minuit, Parigi 2010.
H. Mayer, Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo, Garzanti, Milano 1993.