Quanto tempo è racchiuso in alcune ore? Tutto. Ed è ciò che Tamar Weiss-Gabbay ci consegna fra le mani con il suo La Meteorologa. Il tempo è misurato, analizzato, valutato, involuto, dispiegato, predetto, rievocato, fotografato in istantanee che mutano e si distorcono sotto i nostri occhi come colore che cola su una tela. In ogni frammento del libro si nasconde, intrecciato su se stesso nell’arco di poche ore, tutto il tempo che i protagonisti hanno vissuto, vivono e vivranno ed è l’abilità della scrittrice a lasciar emergere questi fili intrecciati senza confondere il lettore e, anzi, rendendo ogni interconnessione che viene svelata chiarificatrice per il testo nella sua interezza. La linea del presente è innestata di rimandi al passato e di sguardi sul futuro grazie ai quali i vissuti dei personaggi si fondono e si confondono specchiandosi vicendevolmente in un continuo scambio di dettagli utilizzati per intrecciare le identità di ognuno in un unico vissuto collettivo che fonde il naturale con l’artificiale, l’essere umano a tutto ciò che lo circonda, letteratura e vita vissuta, il tempo fisiologico con quello della memoria.
Ma ogni tentativo di catturare il tempo non può essere altro che un’ipotesi, infatti l’esile volume si apre esplicativamente con un’inondazione imminente non predetta che la protagonista (indicata in questo modo soltanto perché incarna il titolo del libro e non perché sia l’unica) decide di verificare sul campo, di persona, nell’unico modo in cui è davvero possibile conoscere con precisione il futuro, così come il passato: quando si declina al presente. Ma chi è la meteorologa? Intanto, contro ogni aspettativa, non è la (sola) protagonista del libro, poi la sua posizione coincide esattamente con ciò di cui si occupa, con la sua pratica quotidiana. Il mondo de La Meteorologa, infatti, non conosce il nominale, ma non se ne sente la mancanza. Nessuno dei personaggi è contrassegnato da un nome proprio, le uniche parole utilizzate per disegnare le figure che si muovono fra le pagine sono funzionali e hanno a che fare con le azioni che compiono o con le relazioni che intessono con gli altri che gli conferiscono quindi il ruolo, la posizione, che occupano nel puzzle in movimento che si va man mano formando, tessera dopo tessera. Lei è la donna del tempo, del suo tempo, che può conoscere e diffondere il futuro ad un passo di distanza rispetto a tutti gli altri. Una figura per certi versi quasi profetica.
Il tempo della meteorologa è dunque scadenzato dal clima giornaliero, è quella la frazione temporale a cui lei si dedica con più attenzione, un futuro prossimo molto vicino minacciato da una nube nera non ancora visibile, ma imminente. Una nube a cui nessuno vuole credere e che la meteorologa non vorrebbe dover predire per non essere lei la causa del fallimento della spedizione che suo padre sta organizzando con i suoi studenti per mettere a tacere il lugubre lamento (che ha il sapore di un avvertimento inascoltato) che il vento provoca passando attraverso un canale costruito per arginare le inondazioni. Una moderna Cassandra, volendo, che presta la sua bocca alle forze della natura, fatalmente costretta a tacere o a mentire per essere creduta, non padrona delle sue previsioni delle quali non può essere completamente certa, ma di cui deve trascinarsi dietro la responsabilità. O come una sorta di figura cristologica che sacrifica se stessa alla fine della sua vicenda letteraria per aver incarnato, in qualche modo, lo spirito del tempo della sua epoca.
Ma la figura della meteorologa non traina, sola, l’intero libro; dialoga con le altre due figure principali del testo, suddiviso scientemente in tre sezioni ognuna guidata dalla voce di un personaggio diverso, di una generazione diversa. Il filo della meteorologa si interrompe bruscamente e tragicamente per lasciare spazio a quello di suo padre, identificato come il professore perché quello è ciò che il mondo lo chiama a fare, la sua vocazione ed è così che si fa chiamare anche dalla nipote (che conosciamo soltanto in termini relazionali come la nipote di entrambi), sua allieva, che si occupa di dare voce alla terza ed ultima parte del libro.
Ognuna di queste parti dialoga con le altre in molti modi diversi a partire dal fatto che si tratta di tre generazioni differenti che di conseguenza incarnano tre modi diversi di percepire e di relazionarsi al mondo, al tempo, allo spazio, all’ambiente che li circonda: Tamar Weiss-Gabbay utilizza abilmente tutti i metodi immaginifici che una composizione letteraria mette a disposizione per intrecciare il dentro con il fuori, il passato con il presente e con il futuro, per confondere i regni naturali in cui convenzionalmente ed antropocentricamente viene diviso il mondo, per fluire costantemente, con lo stesso movimento oscillatorio con il quale si muove la marea, dalla letteratura alla vita e viceversa. Mentre per il professore il rispetto per il mondo naturale (con le sue regole ed i suoi bisogni ben distinti da quello culturale umano) è fondamentale, la meteorologa noterà che non esistono confini o delimitazioni che non siano percettivi (infatti le tre sezioni del libro, che corrispondono a tre menti diverse, sono le sole strutture ben separate l’una dall’altra).
Parlando di un punto nella sua cittadina natale, è lei stessa a rivendicare che «[…] la cittadina si faceva natura, a essa si fondeva, così piaceva dire a tutti con orgoglio, ma bisognava ammettere che era una menzogna […] Come se ci fossero due cose separate, la cittadina e la natura. Come se non fossero una cosa sola.» O, parlando del suo cane passato da domestico a selvatico che le ringhia contro «per la loro domesticazione. Per la domesticazione di tutto», ammette che «non aveva cambiato parte, non era passato con la natura selvaggia. Non c’erano parti. Era diventato quello che era sempre stato». Nel suo dedicarsi alle previsioni la meteorologa cerca quindi un contatto, cerca di essere integrata, assorbita e riaccolta nell’ambiente che la circonda, di parlare la sua stessa lingua, forse nello stesso modo in cui la sua lingua gioca con i sassolini che di tanto in tanto si mette in bocca come fossero caramelle.
Seguendo ciò che sostiene Paul Valery nel dire che «ciò che vi è di più profondo nell’uomo è la pelle» (Valery 1932), la forma di conoscenza più immediata e primordiale si rivela il tatto e più che la pelle delle mani è quella della bocca, molto più ricca di terminazioni nervose, la più efficace: lo sanno bene i bambini. Inoltre l’esplorazione con la bocca dà modo di entrare in contatto anche con altri tre sensi (naturalmente il gusto, ma anche l’olfatto ad esso strettamente connesso e l’udito a causa della vicinanza che la bocca ha internamente con l’organo dedicato) ad esclusione solo della vista, fatalmente il senso da sempre prediletto dal mondo occidentale per orientarsi nella conoscenza. È forse questo che cerca la meteorologa assaporando e frantumando con i denti i piccoli sassi accuratamente scelti che finiscono, invece, alla fine, per scheggiarle un dente.
Proprio la vista (simbolo di intellettualizzazione) contraddistingue il professore, suo padre, descritto ogni volta a partire da quei suoi occhi verdi, penetranti, costantemente stretti a fessura nell’atto dell’osservazione, impegnato nella separazione fra artificiale e naturale a partire dal suo testo di riferimento Il vecchio e il mare che in qualche modo costituisce uno dei fil rouge del libro nonché la visione che adotta per interpretare il mondo: «È la gloriosa storia di un pescatore che è incarnazione di quanto di più nobile ci sia nell’uomo e di un pesce gigante che incarna quanto di più nobile ci sia nella natura». Il professore incarna la visione di una generazione passata che (generalizzando, naturalmente) tendeva ad istituire una netta separazione fra cultura e natura, come se le due cose incarnassero due valori distinti, egualmente degni, ma in qualche modo contrapposti, destinati a convivere senza incontrarsi mai.
Non è un caso che il tempo del professore sia tutto declinato al passato: è l’unico, fra i tre personaggi, ad essere inquadrato non la mattina della gita al canyon, ma la sera prima. E la sua vicenda non soltanto anticipa quella delle altre due figure, ma si svolge all’interno di una cantina (simbolo per eccellenza dell’inconscio, dove si racchiude la memoria, spesso distorta, della vita passata) nella quale rimane simbolicamente intrappolato passando l’intera notte in bilico fra ricordi d’infanzia che si mischiano a sogni che a loro volta creano intorno a lui una realtà surreale nella quale rievocazioni passate, immaginazioni e realtà si fondono abbattendo proprio quei confini a cui il professore non vuole rinunciare. Da pescatore (incarnazione di quanto più nobile ci sia nell’uomo) quale si era sempre sentito, si scopre pesce in una visione notturna delirante e rivelatriceal tempo stesso: «Doveva ancora nascere, pesciolino d’oro, com’era sempre stato».
Proprio come il cane della meteorologa non è mai passato da domestico a selvatico, il professore scopre in una notte l’abbattimento di quelle barriere con le quali aveva sempre tentato di circoscrivere il mondo. Infine, la figura probabilmente più enigmatica e lasciata ancora aperta dal momento che la sua strada è ancora da costruire, è quella della nipote. È simile alla meteorologa nel suo tentativo di contatto con il professore e nel sentirsi invece una delusione per lui ed un tradimento nei confronti delle aspettative che quest’uomo del passato riponeva nel futuro dei suoi geni, ma è l’unica che riesca infine ad istituire un qualche tipo di contatto reale fra mondi che appaiono nettamente separati se non addirittura in contrasto l’uno con l’altro. E lo fa proprio non ponendosene il problema. Riesce involontariamente a trarre un senso nuovo dall’audiolibro de Il vecchio e il mare non soffermandosi sul significato del testo, ma riuscendo ad integrare le parole che ascolta, in maniera frammentaria, con la realtà che la circonda, riempiendole di un senso nuovo, non valoriale e assoluto, ma contingente e singolare. Una rivelazione che collega direttamente il sangue (reso eterno dall’essere letteratura) del cuore del pesce nell’audiolibro al sangue (transitorio perché materiale) della cucciola di gazzella appena nata che la nipote ha di fronte in quel momento e che asciuga con le pagine cartacee dello stesso libro che sta ascoltando.
Tamar Weiss-Gabbay, La Metereologa, Giuntina, Firenze 2024.
*L’immagine è un dettaglio della copertina del libro.