Nel primo episodio (Alessandra si è sposata a ventun anni) siamo in un cortile, un giovane sta provando a riparare la catena di una motosega. Parla un dialetto lombardo. Si sente la voce di una donna, poi un altro giovane, in lontananza belati di pecore e tubare di colombe. Siamo nell’aia di una casa di campagna. Comincia così La distanza (Italia 2021, regia ENECEfilm – un collettivo che opera a Milano dal 2012 – presentato al 24° Festival del Cinema Ambiente di Torino, coprodotto con l’AESS, archivio di etnografia e storia sociale della Regione Lombardia). Cambio di inquadratura, una panca accanto all’ingresso della casa; “sei tu il pastore” dice la donna rivolta ad uno dei due giovani, ora capiamo che è la loro madre. Poi arrivano degli animali, un agnello e un piccolo cane, nello spazio aperto che abbiamo visto all’inizio. L’agnello avvicina il muso al cagnolino, e glielo lecca, ricambiato. Arrivano intanto altre persone, una giovane donna e una bambina, altri cani che scodinzolano. Di lontano c’è rumore di traffico, automobili che passano. Ci spostiamo dentro una stanza, una donna anziana con gli occhiali tiene in mano una bottiglia di plastica (un tempo conteneva Coca Cola) a cui è attaccato un agnello. Succhia con forza, il muso leggermente sollevato. Ha fame, e guarda fisso nella nostra direzione, come la donna. Chi guarda chi, sembrano dirci quegli occhi. Ma dove ci troviamo?
Comincia il secondo episodio (Giovanni non ama stare da solo). Siamo all’alba, un campo con un filare di alberi sullo sfondo, rumore di campanacci. Lontano oltre gli alberi, però, si scorgono degli edifici, forse un campanile, o la ciminiera di una fabbrica. Arriva Giovanni, il pastore, che fischia leggero al gregge, anche se più che un fischio sembra il verso di qualche uccello notturno, dei cani pastore lo seguono e si muovono intorno a lui. Quindi passa il gregge, numeroso, scampanellante. Fra le pecore ci sono anche due asini, portano sulla groppa del materiale. Un cane abbaia, e quando il gregge sembra essere tutto passato arriva anche una grossa mucca bruna. In realtà le pecore sono ancora moltissime, riempiono quasi tutto lo schermo, mobile massa bianca. Non c’è nulla di umano in questa scena, fischi, latrati, belati, muggiti, campanelle. Dove siamo, ci chiediamo ancora una volta?
Forse è l’alba, oppure siamo al tramonto, adesso, il gregge è fermo, gli animali riposano. Stanno tutti intorno ad una roulotte bianca, ferma in mezzo ad un prato, vicino ad un furgoncino con i fari accesi che sta facendo manovra. Poco dopo siamo al suo interno, fuori dal finestrino scorre quello che sembra un paesaggio agricolo, campi, alberi, qualche casolare. In realtà siamo nella periferia di una città, si cominciano infatti a vedere sempre più case, magazzini, negozi. Il pastore, è quello che abbiamo visto all’inizio del film, parla al telefono con una donna, sono morte delle bestie, ci sono dei compiti burocratici, moduli da compilare.
Siamo di nuovo nella macchina, ma ora è giorno, dal finestrino si vede il gregge che bruca in un boschetto di pioppi dai tronchi esili. Capiremo fra poco che siamo nella golena di un grande fiume, sullo sfondo se ne vede un argine. Un cane, che ha riconosciuto il padrone, abbaia. Oltre al bue e agli asini ci sono anche delle capre. Dalla roulotte esce un uomo anziano con un cappello di paglia, un altro pastore. Lentamente, con un gran frastuono di belati e campanacci, il gregge si muove, e alla fine la roulotte rimane isolata, nell’erba alta, a cercare di nascondersi nel fogliame. L’inquadratura mostra la riva di un fiume, l’acqua quasi verde, torbida. Arriviamo in un prato dall’erba verdissima, gli animali sono passati attraverso una recinzione che i pastori hanno abbassato. Capiamo poi che siamo molto vicini all’argine che abbiamo visto prima sullo sfondo. È di nuovo notte, il pastore più giovane parla al telefono, accanto alla roulotte, al suo interno il pastore più anziano si riposa fumandosi una sigaretta. Più avanti lo vediamo mentre guarda in modo distratto un programma televisivo che racconta la vita del Cristo. La roulotte è piccola, c’è un fornello, un letto con una coperta azzurrina.
Nel terzo episodio (Lo zio Michele lascerà i suoi animali ai nipoti) le pecore si stanno muovendo, di notte. Il pastore giovane le segue con il suo furgoncino. Sono gli occhi degli animali a colpirci, soprattutto, viene da chiedersi che stanno vedendo, quegli occhi, i fari dell’auto, la strada infangata. Sguardi vicini, sono mammiferi come noi, ma anche incredibilmente lontani. Sguardi per nulla preoccupati, è la loro vita muoversi, stare vicini, belare e guardarsi intorno. In effetti la presenza di così tanti animali fa perdere alle parole degli esseri umani ogni carattere linguistico; quelle parole, come il belato delle pecore, sono il loro verso. I cani abbaiano, le pecore belano, gli asini ragliano, gli umani abbaiano parlando.
I fari del furgone seguono da dietro il lento movimento delle pecore, che ogni tanto però si fermano, e fissano lo sguardo verso di noi, gli spettatori: sembra quasi che ci aspettino, che si preoccupino che non ci perdiamo. Ci stanno aspettando. Arriva intanto un altro pastore, zio Michele, un uomo barbuto con un cappello bianco, seguito da un grosso maremmano. Si parla con il pastore con il cappello. Torna il giorno, una pecora ancora tutta insanguinata lecca il muso di uno dei due agnellini che ha appena partorito, ancora non si reggono sulle zampe. Il suo belato è ritmato, più basso di quello che abbiamo sentito finora. Arriva zio Michele e prende per le zampe i due neonati, siamo in un prato, su una strada passa veloce un’automobile. La pecora lo segue, insieme ai cani pastori incuriositi.
L’inquadratura si allarga, e allora finalmente riusciamo a capire dove siamo. Le pecore sono ammassate lungo un vialetto che costeggia il muretto di recinzione di una fabbrica, o di una centrale termoelettrica; ci sono delle enormi basse cisterne gialline sullo sfondo. Pastori, agnelli, cani, pecore, industria. Non ci capisce se sono le pecore ad essere fuori posto, in un paesaggio moderno, oppure è il contrario, sono le cisterne che disturbano gli animali. In realtà non è né il primo né il secondo caso: animali e cisterne stanno vicine. Semplicemente. La vita è questa contiguità. In effetti, quando il pastore anziano ci fissa, seduto sul ciglio della strada con i suoi cani alle spalle che sonnecchiano, non c’è alcun rimpianto nel suo sguardo, né condanna per un tempo che costringe le pecore a fare a transumanza fra strade asfaltate e industrie. Sembra lo sguardo dell’agnello all’inizio del film, un puro sguardo vivente, oltre l’animale e l’umano.
E infatti ora le pecore brucano in un bel prato verde, alle loro spalle c’è una fabbrica, con tubature d’acciaio e ciminiere. Si sentono rumori di automobili, ma anche il frastuono sordo e pesante che viene dalla fabbrica. Gli animali però non sembrano accorgersene, mentre si muovono sparpagliati fra erba e alberi. Lentamente il campo visivo si svuota, gli animali passano ai lati della macchina da presa, rimangono solo una pecora con l’addome rigonfio e accanto a lei un agnello. Mentre continuano i belati e i grugniti si ferma, assorta, e ci fissa. Di nuovo quello sguardo che ci insegue dall’inizio del film, che cosa stanno osservando – ammesso che stiano osservando qualcosa – quegli occhi?
“Allah è grande” dice Ahmed nel quarto episodio (Ahmed). Le pecore, dopo essere state caricate su dei camion, entrano infine in un mattatoio. Pecore, lana, metallo, macchine, carne, un musulmano che invoca il suo Dio. È questo il nostro mondo, è questa la natura. Il corpo scuoiato che vediamo in primo piano è forse quello della pecora che prima ci osservava. La sequenza finisce con l’inquadratura di un campo invernale pieno di stoppie.
Nell’ultimo episodio (Luca non aveva parlato a suo padre per diversi anni), vediamo quello stesso campo attraversato da un gregge, e sullo sfondo la roulotte bianca che avevamo visto prima, all’inizio dell’estate. Siamo in inverno. Il pastore giovane, dentro la roulotte, mangia pane e salame, in lontananza si sentono risuonare i campanacci. Le pecore sono ancora lì. Il suo sguardo è febbrile, come i morsi con cui addenta il suo pasto.
Che cos’è la natura, nel tempo dell’antropocene? La distanza ci mostra una natura molto antica ma anche molto vicina, letteralmente dietro casa. È che non abbiamo occhi per vederla, questa natura che non ha niente di “naturale”, perché il dualismo che imprigiona i nostri pensieri ci costringe a non vedere quello che, invece, è in piena vista. Ci sono le ciminiere, ci sono i pastori e la transumanza, c’è la vita e c’è anche, e non poteva non esserci, la morte. È questa la natura. Una natura che non sa che farsene dei nostri giudizi, delle nostre parole e delle nostre preoccupazioni. Gli animali, cani, mucche, asini, capre lo sanno, l’hanno sempre saputo. In fondo essere un animale non vuol dire altro che essere questa antichissima sapienza, che c’è la vita. È una sapienza spietata, è vero, che non ci piace proprio perché è spietata. È questa la distanza che non riusciamo a pensare. Eppure basta aprire gli occhi, ed accettare il rischio di esporsi allo sguardo glaciale di quella pecora. E allora la distanza collassa.
La distanza. Regia: Enece Film; origine: Italia; durata: 51′; anno: 2021.