Ancor più che nei precedenti romanzi di Haruki Murakami, ne La città e le sue mura incerte tutto si snoda a partire da un’idea di duplicità. L’immagine del doppio, di ciò che è replicabile e al tempo stesso unico e riconducibile ad una dimensione autonoma, ha sempre rappresentato per l’autore nipponico – almeno sin dai tempi di Nel segno della pecora (1982) – l’espediente attraverso cui connettere realtà tra loro comunicanti ed interdipendenti sotto il segno dei linguaggi allegorici del realismo magico, e tramite il quale squarciare il velo illusorio del mondo “reale” (sia esteriore che interiore all’essere umano) con l’obiettivo di indagare tutti i significati, i simboli e i segreti che la vita nasconde agli occhi dell’individuo.

Ma nella sua ultima opera, edita nel 2024 da Einaudi, questo procedimento di sdoppiamento/replicazione della realtà va incontro ad un consolidamento ulteriore: quasi come se arrivasse ora ad acquisire una valenza deliberatamente teorica, e perciò emblematica tanto del momento artistico che sta attualmente attraversando lo scrittore, quanto della sua poetica tout court. Al punto che in ogni passaggio narrativo del libro, in ogni snodo o soluzione drammaturgica concepita qui dall’autore, sembra possibile individuare un universo intero: fatto di segni, consuetudini e stilemi immediatamente riconoscibili per chi ha familiarità con il mondo murakamiano, tale da inglobare, con una trasparenza quasi lapalissiana, i codici stessi con cui Murakami concepisce le realtà replicanti in cui vivono i suoi (solitamente innominati) protagonisti, simultaneamente dislocati in dimensioni di segno e natura differente.

Data l’evidente propensione teorica del romanzo, non sorprende che la genesi de La città e le sue mura incerte sia da ritrovare in un vecchio racconto scritto nel 1980: ovvero composto agli albori della carriera letteraria di Murakami, quando ancora l’autore, al tempo proprietario insieme alla moglie di un jazz bar nella Tokyo pre-bolla, non aveva ancora deciso di intraprendere seriamente il percorso di romanziere, né tanto meno aveva iniziato ad innervare la sua poetica delle istanze metaforiche del realismo magico; giocate appunto sulla scomposizione interna di una realtà solo apparentemente univoca, e sul suo sdoppiamento sia fisico che ontologico/semantico.

Ecco allora che a distanza di 40 anni, in un periodo così fertile per l’autoanalisi come quello pandemico, l’autore giapponese decide di rimettere mano ad una storia – dal suo punto di vista – “incompleta” e depositaria di una “voragine emotiva” rimasta fin troppo a lungo dischiusa nell’animo dell’autore: come se la sua stessa incompiutezza o immaturità drammaturgica, considerato il periodo embrionale in cui è stata redatta, avesse tormentato lo scrittore per tutto il corso della sua carriera.

Al punto che agli occhi di Murakami, la sola revisione di quel testo, e quindi il prolungamento e l’estensione narrativa di cui sarebbe poi stato oggetto, gli ha permesso non solo di ricodificare un’opera giovanile secondo i linguaggi e i temi da lui maturati in 45 anni di carriera: ma gli ha consentito di chiudere un vulnus incontrovertibilmente simbolico, e di suggellare così in termini metaforici (o forse anche storici?) il suo intero percorso poetico. Culminato, almeno per adesso, con il “racconto di una vita”, giunto solamente ora a quella forma idealmente compiuta che Murakami è stato in grado di sublimare con la stesura conclusiva di questo La città e le sue mura incerte, da intendere – guarda caso – anche come perfezionamento della prima delle due sezioni del suo quarto romanzo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie (1985). A testimonianza di quanto il libro sia il prodotto culminante di un cammino durato più di quattro decadi.

Tutti i discorsi qui presentati, soprattutto per quel che concerne l’apparente naturalezza con cui l’autore darebbe ora vita con La città e le sue mura incerte ad una narrazione profondamente teorica – e quindi ad un vero e proprio manifesto programmatico della sua poetica – li troviamo sintetizzati già nell’incipit della storia. Il protagonista, di cui come consuetudine non è dato sapere il nome (essendo il suo “io” talmente totalizzante da invadere mondi e spazi non riconducibili al singolo individuo), è il riflesso stesso di quel senso di duplicità che governa tutte le istanze della narrazione. Nella sezione iniziale del romanzo ha l’aspetto di un ragazzo di 17 anni, alle prese con il primo (e forse unico?) innamoramento della sua giovane vita, mentre in quella conclusiva è un solitario quarantenne immerso nel tedio di una routine in procinto di essere rovesciata, in piena linea con l’identità dei classici “uomini senza donne” (titolo della raccolta di racconti da cui, ad esempio, Hamaguchi ha tratto Drive My Car) che popolano e definiscono i vari romanzi dello scrittore.

Da questa descrizione, si potrebbe pensare alla coesistenza di due personaggi differenti o semplicemente alla maturazione anagrafica dell’uomo: ma il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta del protagonista de La città e le sue mura incerte è raccontato senza alcuna soluzione di continuità; come se il ragazzo, dopo aver subito il richiamo allegorico di una vita-altra, avesse magicamente bypassato molte delle tappe intermedie della sua esistenza, per poi ritrovarsi improvvisamente nei panni del sé stesso già maturo.

E come sempre accade in Murakami, il catalizzatore di questo repentino processo di maturazione è l’incontro-scontro con le coordinate di una realtà parcellizzata, che nasconde al suo interno – o comunque dietro la sua “facciata” fenomenica – un mondo invisibile, più emotivamente denso ed onirico, in cui diventa possibile rielaborare le eventuali fratture del proprio animo, e mettere a nudo la coscienza di chi, metaforicamente, lo attraversa. Un universo che viene qui sintetizzato in una fantomatica città dalle alte cinta murarie, dove il tempo non scorre mai (la torre di guardia presenta un enorme orologio senza lancette) e che funge da replica e specchio dei timori, delle inquietudini e delle più recondite fantasie d’amore di coloro che oltrepassano magicamente la sua soglia.

Questo perseverante tema dello sdoppiamento non è solo iconografico, ma anche esistenziale. Non è un caso che il protagonista – dopo aver riflettuto a lungo sulle parole della sua fidanzata giovanile, e sulla possibilità che colei che aveva incontrato nel mondo “reale” fosse solo la copia della ragazza, essendo il suo vero corpo confinato nella “città dalle alte mura” – si rechi inconsciamente in questo paesaggio urbano metaforico, dove sarà costretto ad abbandonare la sua ombra (quindi il vecchio sé stesso) se vorrà continuare a vivere nel luogo in cui è appena approdato, e a “leggere i sogni” degli esseri umani all’interno della fantasmatica biblioteca locale.

E nel momento in cui deciderà di ritornare ad una dimensione realistica, ecco che il suo io verrà completamente riconfigurato e ri-adattato ad una fase esistenziale più precaria e instabile: ovvero l’unico stadio che permette al classico individuo murakamiano di mettere in questione l’insieme delle esperienze (reali? Solo immaginate?) cumulate in vita, e di interrogare la sua identità in un mondo sfuggente e fallace, sempre proteso ad ospitare una doppia verità. Sia in riferimento alle vittime di questo sdoppiamento del reale, sia sulla natura “duplice” degli ambienti che circondano – e a volte ridestano – i personaggi.

Ma l’istanza narrativa del “doppio” non si esaurisce qui. E se la compenetrazione di realtà interagenti e al tempo stesso respingenti rappresenta il viatico da cui Murakami fa tendenzialmente passare tanto i suoi processi di worldbuilding quanto la presentazione dei singoli eventi di un racconto, questa duplicità non solo acquisisce ne La città e le sue mura incerte un volto materico (rappresentato, appunto, dal mondo-replica in cui si muove buona parte della narrazione) ma definisce la stessa struttura drammaturgica del romanzo, basato quasi ossessivamente sulla ripetitività/ciclicità: di formule, di immagini e di sviluppi narrativi.

La seconda metà del racconto, quando cioè l’uomo, tornato alla realtà di sempre, va a lavorare – guarda caso – in una biblioteca di periferia, presenta sì una prosecuzione naturale della sezione iniziale del libro, ma assurge anche a sua replica speculare. Il protagonista, da ora in poi, solleciterà un ragazzo con la “felpa dello Yellow Submarine” (vale a dire il film escapista per eccellenza delle narrazioni beatlesiane, e forse dell’animazione tout court di fine anni ’60) a disegnare la cartina topografica della città dalle alte mura, proprio come era accaduto, nel prologo del racconto, alla sua fidanzata adolescenziale.

E in linea con l’inspiegabile “sparizione” dell’amata – evento da cui prende piede il viaggio dell’uomo – anche il secondo redattore della mappa svanisce improvvisamente, smaterializzandosi senza soluzione di continuità nel mondo-altro, e portandosi nuovamente con sé il protagonista: ora capace di affrontare i fenomeni allegorici che stanno colpendo il suo “universo-interiore”, data la maturità acquisita nel corso delle odissee metaforiche di cui stato oggetto nel momento spartiacque della sua (ormai mutata) esistenza.

A questo punto occorre sollevare un importante interrogativo: oltre ad un livello simbolico o drammaturgico, cos’è che davvero rende La città e le sue mura incerte un testo così apertamente emblematico dei processi poetici di Murakami, giunti ora a quel che sembrerebbe essere il loro capitolo conclusivo? Una risposta la possiamo trovare sì nella storia compositiva del testo, ma anche nel suo posizionamento. Chi ha familiarità con la carriera dello scrittore sa bene che il 1995, quando ancora l’autore era lontano dal restituire una forma definitiva al racconto di cui stiamo parlando, ha segnato per la poetica murakamiana il principio di un cambiamento davvero drastico, specialmente per quel che riguarda la valenza “politica” e sempre più socialmente impegnata dei temi che avrebbero attraversato le sue storie.

In quell’anno, sullo sfondo di eventi drammatici come il terribile Terremoto di Kobe, l’attacco terroristico con il gas sarin alla metropolitana di Tokyo organizzato dalla setta Aum Shinrikyo o l’inesorabile recessione economica generata quasi un lustro prima dall’esplosione della bolla finanziaria, Murakami dà alle stampe un’opera-simbolo come L’uccello che girava le viti del mondo, nella quale le dinamiche del realismo magico diventano lo strumento con cui interrogare i “peccati imperialisti” della nazione (come abbiamo osservato nel nostro articolo su L’arpa birmana) e scandagliare le anomalie odierne della società nipponica.

Da quel momento, le odissee negli spazi allegorici della realtà si configurano o come sfondo del malessere esistenziale del cittadino-comune giapponese (si pensi a La ragazza dello Sputnik, a Kafka sulla spiaggia o ad After Dark) oppure quale cornice in cui presentare alcune delle derive sociali verso cui si stava dirigendo drammaticamente il paese (prima su tutti l’impennata dei movimenti cultisti stigmatizzata in 1Q84). Ma se già ne L’incolore Tazaki Tsukuru (2013) o ne L’assassinio del commendatore (2017) l’autore aveva iniziato a disinnescare l’afflato polemico dei testi, per declinare la sua speculazione filosofica in territori più individualisti e politicamente neutri, ora con La città e le sue mura incerte sembra aver portato a culminazione questa depoliticizzazione dello sguardo, proprio grazie alla natura teorica su cui si fonda il racconto.

Ed è in virtù di simili coordinate che il romanzo, così apertamente autoriflessivo, sollecita lo scrittore a passare in rassegna tutta la sua carriera, tra cui gli stilemi del “doppio” e le varie “anime” che hanno cadenzato l’evoluzione poetica di Murakami, e a chiudere così metaforicamente un cerchio. Aperto nel lontano 1980, e suggellato quasi cinque decadi a seguire. Mentre nel mezzo scorreva un’intera vita letteraria.

Haruki Murakami, La città e le sue mura incerte, Einaudi, Torino 2024.

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