«Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania». Si potrebbe partire da questa didascalia, posta da Kon Ichikawa in apertura e in chiusura del film, per iniziare ad indagare la natura (politica, semantica, culturale) del viaggio verso la spiritualità – o la redenzione – che il cineasta ci presenta lungo tutto il corso de L’arpa birmana.

Perché l’opera firmata nel ’56 dal celebre regista giapponese – a sua volta adattata dall’omonimo romanzo di Michio Takeyama – è sì un’esplorazione della fede buddhista da parte di un ex soldato nipponico, e degli insegnamenti che tale dottrina purificatoria rivela agli occhi del non-consacrato: ma soprattutto è da intendere come un’analisi, declinata in termini poetici, delle logiche imperialiste che hanno governato il pensiero giapponese nei primi vent’anni dell’Era Shōwa, portando così la nazione – e i suoi “ignari” cittadini – a credere ciecamente nella supremazia etnica del nihonjin (il popolo dell’arcipelago nipponico) e nei diritti all’espansionismo militare esercitati dall’Impero del Sol Levante fino al termine del secondo conflitto mondiale.

Un’indagine che parte dalla presa di coscienza del sangue versato dall’esercito nelle terre, ora sempre più rosse, di un paese “incontaminato” come era la Birmania di metà Novecento, filtrata dal punto di vista di uno scontro-incontro culturale. L’arpa birmana prende piede, appunto, nell’agosto del 1945, quando anche gli ultimi boati di guerra erano stati neutralizzati dall’annuncio della resa del Giappone. Se però in patria il popolo nipponico aveva potuto già iniziare a metabolizzare la ferita della sconfitta, avendo assorbito – anche se non comprendendole del tutto – le parole di rassegnazione con cui l’Imperatore Hirohito aveva comunicato radiofonicamente la capitolazione della nazione, lo stesso non lo si può affermare per le truppe imperialiste stazionate nei diversi teatri del conflitto Indo-Pacifico.

Ciò che rivela la verità al piccolo battaglione del Capitano Inoue (Rentarō Mikuni) non è l’annuncio imperiale, ma una canzone pacifista, cantata dal contingente inglese di stanza in Birmania. All’udire le note di «Home, Sweet, Home» il comandante nipponico sollecita immediatamente i suoi commilitoni a gettare le armi, in un misto di umiliazione e tragico conforto: la guerra è finita, e seppur vinti, i giapponesi possono finalmente anelare al ritorno in patria. Ma non tutti i battaglioni sono dello stesso avviso, proprio perché, non avendo ascoltato le parole rivelatrici di Hirohito, continuano a perseverare nella ideologia suprematista su cui così strenuamente si è fondato il militarismo nipponico. Per disinnescare le ultime istanze belligeranti dell’esercito nipponico, gli inglesi costringono perciò il giovane soldato – nonché suonatore di arpa – Mizushima (Shōji Yasui) a persuadere il contingente ribelle a deporre le armi, in una missione che culminerà in tragedia, e che metterà in moto il cammino di redenzione (personale, e collettiva) del personaggio e del popolo di cui il ragazzo si fa testimone e punto di rottura ideologico.

Quel che Ichikawa e la moglie Natto Wada – sceneggiatrice di lunga data dei film del marito – ci suggeriscono attraverso il cammino di purificazione di un giovane giapponese che sveste i panni del soldato per indossare quelli “catartici” del monaco buddhista, è il tentativo drammatico di riconquista della propria corporeità di uomo – e forse anche di cittadino giapponese – da parte di Mizushima, soprattutto in faccia ai malanni (e ai peccati) imperialisti in cui si è inabissata così a lungo la nazione. Ai tempi della guerra, infatti, il corpo di un nipponico non apparteneva al singolo individuo, ma all’Imperatore: e in quanto tale, la carne del cittadino si faceva veicolo ed espressione dei codici militaristi che avevano portato il paese a colonizzare numerose popolazioni asiatiche, riversando il sangue in una terra precedentemente incontaminata come quella birmana.

Ma nel paese dei “bonzi” tutto si muove all’insegna della spiritualità, dei dettami pacifisti che dimorano in ogni pezzo di terra, in ogni singolo anfratto della nazione. E in un territorio così irrorato della filosofia buddhista, dove la matrice umana – e quindi l’anima degli individui – è intrinsecamente legata agli spazi simbolici e catartici dell’ambiente naturale, i cadaveri dei “diavoli” giapponesi sono condannati a rimanere in superficie, senza trovare una degna sepoltura. Ecco allora che Mizushima, fuggito fisicamente (e metaforicamente) dal contingente bellico a cui apparteneva, si fa carico della missione di seppellire tutti i corpi dei suoi commilitoni, in modo non solo da restituire dignità a coloro che hanno sacrificato le proprie esistenze per una patria traviata e al tempo stesso sede e culla dei loro natali: ma soprattutto al fine di tumulare, insieme ai soldati, anche gli ultimi peccati del Giappone. Mettendo così la parola fine sulle crudeltà di una guerra che ha neutralizzato, oltre alle vite di milioni di soldati, ogni istanza di umanismo e di rispetto reciproco tra popolazioni ed etnie differenti.

Il contatto con una realtà altra, più pura ed eminentemente edificante, diventa allora il fulcro attorno a cui L’arpa birmana costruisce tutti i suoi linguaggi, che appaiono qui tanto radicali quanto lancinanti proprio perché delineano, attraverso l’idillio del viaggio spirituale, un conflitto lacerante in colui che è destinato, tragicamente, a compierlo. Qui Mizushima vorrebbe tanto ricongiungersi con i suoi commilitoni, e ritrovare nel calore dei compagni e del suo caro comandante quella complicità emotiva che può sollevarlo dalle struggenti incombenze del suo animo. Eppure l’ex soldato non ha alcuna possibilità di rinunciare ad una missione che trascende il singolo individuo, e che si carica, attraverso i motivi dell’attraversamento spaziale, di connotazioni sempre più simboliche e purificatorie. Quello a cui si sta volontariamente sottoponendo è un cammino di rivelazione incerto, frastagliato, che può giungere a compimento solo se porta, chi lo compie, a mettere in discussione sé stesso e tutto ciò che lo connette ai valori della nazione di cui è ora il tragico manifesto: un fenomeno da individuare anche nell’obliterazione dei legami cameratistici tra commilitoni.

È proprio qui che il regista fa passare tutto lo spirito antimilitarista del racconto. Agli occhi di Ichikawa, il contatto tra culture opposte funge da catalizzatore, per il “virginale” Mizushima, della rivoluzione identitaria/valoriale a cui va inesorabilmente incontro il soldato, in un territorio che attiva nell’oppressore i principi stessi della catarsi: sia umana, che appunto ideologica. E più il ragazzo, in quanto segno e frutto delle strategie belliche dell’Impero, si inoltra negli spazi “simbolici” della Birmania, più la necessità di occultare il passato recente della nazione, attraverso la sepoltura dei suoi “figli”, si fa cruciale ed emotivamente opprimente. E se il messaggio della resa è stato precedentemente metabolizzato attraverso una canzone, non è un caso che la presa di coscienza definitiva del suo ruolo di “becchino dell’Impero” sia mediato qui da una struggente sonata.

Riconosciuti gli arpeggi di Mizushima, il capitano Inoue si ritrova, insieme al suo piccolo contingente, ad ascoltare estasiato la composizione dell’arpista. E nel momento in cui il neo-monaco intona a distanza il “canto dell’addio”, ecco che i soldati iniziano a cantare all’unisono sulle note del loro compagno, lasciando lo spettatore indifeso, vulnerabile, impossibilitato a verbalizzare a parole un messaggio sì politico ma che Ichikawa veicola attraverso la creazione di un’atmosfera straordinariamente sinestetica. I personaggi, come gli spettatori, si ritrovano uniti in un canto pacifista, che oblitera ogni differenza e asimmetria esperienziale, sull’altare di un’unica, e lancinante immagine di connessione spirituale. Dopo questa visione, a cui poi seguirà la lettera con cui Mizushima renderà conto ai compagni delle sue scelte, non c’è più spazio per retrotopie o idealizzazioni del passato imperialista. La nazione, ci sta dicendo qui Ichikawa, deve seppellire definitivamente i suoi trascorsi belligeranti, se desidera individuare la via del domani. Da trovare, chissà, anche nell’estasi di un canto collettivo. E nello spirito fanciullesco che risveglia nei cuori di chi si abbandona al suo straziante, e lenitivo richiamo.

L’arpa birmana. Regia: Kon Ichikawa; sceneggiatura: Natto Wada; fotografia: Minoru Yokohama; montaggio: Masanori Tsujii; interpreti: Shōji Yasui, Rentarō Mikuni, Tatsuya Miyashi, Yūnosuke Itō, Taketoshi Naitō, Jun Hamamur, Shunji Kasuga, Akira Nishimura, Hiroshi Tsuchikata, Tanie Kitabayashi; produzione: Masayuki Takaki; origine: Giappone; durata: 116′; anno: 1956.

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