«In principio era l’azione». Marianne (Fanny Ardant) ripete costantemente la celebre frase del Faust di Goethe, ripresa da Freud in Totem e tabù. È una psicologa che fa schioccare le dita ogni qual volta le sembra che il “carpe diem” le sfugga di mano. Lo fa per ricordare agli altri di essere vivi, ma in prima istanza perché è spaventata dal passaggio del tempo. È affascinata dalla modernità e dalle nuove tecnologie e disprezza il marito, Victor (Daniel Auteil), che sembra invece voler resistere all’evoluzione del mondo. Victor è un fumettista, licenziato in tronco perché si rifiuta di disegnare sui computer e non sulla carta. Ha cresciuto un figlio che di mestiere fa l’ideatore di storie (giochi, serie, pubblicità) per una piattaforma digitale che fa esplicitamente il verso a Netflix. La mamma si crogiola con il figlio nella “fame digitale” che li accomuna, mentre il figlio, nonostante tutto, cerca di rendere felice il padre regalandogli un’esperienza: un ritorno nel passato costruito a tavolino dall’azienda di un vecchio amico (Guillaume Canet). L’azienda lavora sul tempo andato come si lavora per un film: ricrea le ambientazioni, i personaggi, i costumi, gli oggetti di scena della circostanza selezionata. Si appropria del racconto del cliente e trasforma ogni sua parola in messa in scena.

Questo raccontano i primi minuti de La belle époque, opera seconda di Nicolas Bedos (ex attore e autore teatrale), che tutti additano come un nuovo “film-nostalgia”. E in parte è vero, Victor è un sapiente miscuglio del Gil Pender di Midnight in Paris (quando vuole ricordare) e del Joel Barish di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (quando vuole dimenticare). Ma la nostalgia del passato, di un’“epoca bella” a cui si vuole fare ritorno, è in questo caso il pretesto di un altro fenomeno: quello dell’esternalizzazione. Il passato a cui Victor torna è un set cinematografico che non può fare a meno di allestire e dirigere lui stesso. Il suo è tutt’altro che un movimento nostalgico, è piuttosto il desiderio di vedere la sua vita oggettivarsi per poterci “lavorare”, per poter manomettere un’immagine interna ormai opaca e confusa.

Victor deve tornare nel passato ma non per rifugiarvisi. Vuole al contrario usare quella materia creativa come spinta per tornare fuori, progredendo all’indietro. Desidera che quel 16 maggio 1974, giorno in cui incontrava la moglie per la prima volta in un caffè e che chiede all’azienda di riorganizzare per lui in tutti i dettagli, diventi un’occasione vitale da sporcare, riconfigurare, utilizzare al fine di smuovere sensazioni presenti. Il fumettista non torna ad avere 25 anni, torna in quel caffè con i suoi 60 anni sulle spalle, necessariamente e volontariamente diverso dalla persona che era quarant’anni prima. Il suo non è uno show passivo, è lui “Truman”.

Dentro la sua “scena”, quando manca la pioggia Victor la chiede, quando un personaggio del set contraddice il suo ricordo corregge la sua battuta. Ma, allo stesso tempo, quando viene stuzzicato da qualcosa di inaspettato è ben felice di assecondarlo. In altre parole: smette di ricordare e comincia a creare. E qui entra in scena il personaggio di Margot, la “falsa” Marianne (Doria Tillier), che alla vera Marianne non somiglia per niente, né nell’aspetto né nelle movenze che spesso improvvisa, e di cui — proprio per queste ragioni — Victor per un momento si innamora. Attraverso un vetro, in contemplazione come davanti ad un acquario, Antoine li osserva e li dirige. Ma anche l’uomo vive un’implicazione più profonda con il set su cui muove occhi di bue e petali di rosa: ama l’attrice che interpreta Marianne e che, dopo l’ennesima riappacificazione, ha accettato di tornare a lavorare per lui. Così Antoine scrive le battute e poi in itinere le modifica, blocca la scena quando è geloso, non può fare a meno di sussurrare nelle cuffie della donna parole seduttive. Buca costantemente la rappresentazione, mentre Margot si diverte a mettere altrettanto a repentaglio una prestazione che le sta stretta e non vede l’ora di cucirsi addosso da sola.

La realtà è insofferente alla tecnica, alla ricostruzione. Se è scontato dire che il reale eccede sempre la finzione, La belle époque funziona perché dà vita ad un dispositivo ludico giocato piuttosto sulla “mal sopportazione” dell’uno nei confronti dell’altra, risolvendosi in un evitabile gioco a due, efficace solo perché bifido. Siamo allora più sulla scia del Gondry de L’arte del sogno, il cui racconto regala metà del suo tempo all’aspetto della costruzione artigianale dei sogni (in questo caso set televisivi), alle forbici e alla colla usati per superare un trauma o appagare la propria libido. O dell’ultimo Assayas, in cui non c’è nostalgia del passato ma semmai del racconto, delle sue forme e dei diversi dispositivi attraverso cui prende vita.

Il film di Bedos omaggia il potere salvifico della rappresentazione, trasformando il voyerismo di Antoine in amore ritrovato, la nostalgia di Victor in slancio creativo. Entrambi cercano l’invenzione perché solo nell’invenzione riescono a ritrovarsi. Forse non a caso il libro che li unisce è Martin Eden, il romanzo di Jack London, in definitiva la storia di una costruzione che tanto si brama quanto si detesta, tanto è necessaria quanto è giusto liberarsene per tornare a vivere. E allora ben vengano gli sguardi in macchina di Margot che distruggono Antoine e il vetro che li separa, i deragliamenti dal ricordo che, solo loro, ricordano in modo autentico a Victor che cosa sta cercando. Con una spassosa metafora l’appagamento onirico freudiano diventa per il protagonista il pagamento dell’azienda per far sì che il “sogno” non cessi, che la sua ricorsività catalizzi l’ispirazione artistica rinnovata. Il cliente esce dal gioco solo per accettare quel lavoro che il figlio gli offriva da tempo così da continuare a pagare il suo vero lavoro, quello di artista, che nel gioco sta riscoprendo.

“Ti amo. Cioè, scusa, volevo dire: ti cristallizzo”. Ridiamo alla battuta di Marianne in una delle prime scene e capiamo subito dove ci porta il film. Tutti abbiamo bisogno di “cristallizzare”, perché nel cristallo vogliamo scorgere il nostro riflesso. E quel riflesso è pura fantasia, come scrive Stendhal, deformazione che ghiaccia i difetti e non li scioglie fin quando il modello ideale a cui si è scelto di dare forma si difende dalla realtà. Ma in corsa d’opera il cristallo si rompe un’infinità di volte, ed è la sua esplosione a farci scoprire il piacere di reinventarci, di calarci in un nuovo personaggio.

Il vero conflitto è allora quello tra realtà e ricostruzione, vita e cinema. Perché se Antoine è formalmente il capo di un’azienda e Victor il suo cliente, in sostanza sono i registi del film. E le loro comparse rivendicano, in primo luogo Margot, la propria prestazione di attori. La belle époque è quella della messa in scena — di qualunque scena si tratti — che soddisfa il narcisismo e nutre la realtà aprendo su di essa di volta in volta un nuovo accesso. “Nel nostro lavoro è così”, dice uno dei figuranti alla vera Marianne nella scena finale. Ma a sorridergli in risposta è l’attrice Fanny Ardant, che fa cadere in un attimo la quarta parete del ricordo, e anche quella del film.

Riferimenti bibliografici
S. Freud, Totem e tabù, Mondadori, Milano 1994.
Stendhal, Dell’amore, Garzanti, Milano 2003.

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