C’è un’enorme differenza per me tra fare un film e vivere. La mia professione non […] mi concede la possibilità di una vita normale. Il problema maggiore, quando si gira un film, è che si è costretti a vivere […] in un ordine di idee artificiale, in un mondo che non è reale. […] E se a questa finzione si dedicano diciotto ore di una giornata, vuol dire che la persona reale cessa di avere una vita propria (Murri 2002, p. 12).

Così Kieślowski in una delle sue ultime interviste (raccolta da Serafino Murri, nella sua monografia sul regista). Ma che fare un film potesse in un certo senso precludere, o limitare drasticamente “tutto il resto” di una vita, e se fosse più o meno profonda la misura dello scarto tra l’una e l’altro, erano questioni che il regista già aveva interrogato molti anni prima. Nel suo primo lungometraggio più “canonicamente” finzionale, Il cineamatore (1979), dopo i documentari, più drammatizzati o provocati, in parte inscenati (Curriculum vitae, 1975) o meno (L’ospedale, 1977), e corti o lunghi (come La cicatrice, 1976).

Il cineamatore è la misura di quello scarto, o, meglio: di un attrito, se questo implica un tangersi. E, se qualcosa film e vita hanno in comune, se fanno contatto e attrito, non è solo perché – stringando e semplificando – si fa cinema in vita, con la vita o su di essa, no. O, perché – come da intuizione pasoliniana – realtà e cinema condividono il medesimo alfabeto audiovisivo, e l’esperienza individuale del mondo somiglia (è!) un piano-sequenza vita natural durante. No. Può trattarsi di qualcosa di più elementare: che all’uno e all’altra si vada in buona sostanza da dilettanti allo sbaraglio pressoché completo (e il titolo originale Amator è in questo più preciso per polisemia, alludendo non esclusivamente a chi si diletta di cinema) alle prese con dar ad entrambi ciò che non hanno in partenza: forma e stile, e concretarli, con la passione accanita e sempre autodidatta degli amatori. In balia del caso, e senza che possano darsi criteri né modelli a cui rifarsi, senza sapere cosa poi accade e si produce, conseguentemente, nel mondo e nelle vite altrui, quando decidiamo e imprimiamo alla nostra – e al nostro cinema – forma. Senza garanzie in merito a esiti e conseguenze e prezzi di quel formare cinema e vita. All’uno e all’altra si va come impreparati e disarmati, ed entrambi, come le lingue tutte o le tecniche e come tutto il resto, “si apprendono”. Affatto innati, per prove ed errori.

Così accade all’impiegato Filip (Jerzy Stuhr), che acquista una 8mm dapprima per filmare la figlia appena nata, per poi essere eletto a “cineasta ufficiale” nella ditta in cui lavora per documentarne – o, meglio: celebrarne – le attività, e pian piano appassionarsi a quella nuova forma sub-specie cinema che va dando alla sua vita. È incoraggiato da critici, cinefili, programmisti (i suoi film verranno messi in onda in tv), ma anche osteggiato e censurato dai suoi superiori, i quali temono che i suoi film possano diffondere un’immagine potenzialmente “scomoda” della ditta, o gli impongono di tagliare tutto ciò che esula dalla mera celebrazione.

Attrito di cinema e vita, però: quanto più Filip si forma come regista, tanto meno riesce nel dirigere “il resto” della sua esistenza. È assente alla famiglia, e la moglie, che non ne comprende la nuova passione, lo abbandona. Che sia un dilettante assoluto in formazione alla vita tutta, lo dice, intanto, l’interpretazione intelligente di Stuhr (anche coautore del soggetto). Ha un che di impacciato, Filip, e soprattutto d’infantile o irrisolto (è cresciuto in orfanotrofio). Sognatore: con la cinepresa intende semplicemente catturare “tutto ciò che si muove”. È per lo più col candore e la modestia di chi si sente subalterno, più piccolo, sempre un po’ esordiente alla vita, che si rivolge ai superiori in ufficio o alle cerchie cinefile. S’accende d’entusiasmo per ogni minimo apprendimento della nuova lingua-cinema, è quasi comico nelle sue reazioni emotive (il singhiozzo nervoso), e come un bambino si vergogna quando la moglie, che lo sta abbandonando, lo scopre a mimare (con le mani a incorniciare l’occhio) l’“inquadratura” di lei che gli volta le spalle. È in formazione, Filip, dilettante che stupisce degli eventi del mondo visibile come si suppone sia un cineasta, coi moti del viso inquieto, instabile, duttile per espressioni, cereo per come sa modularsi (oltre che per i toni lividi della fotografia). Sensibile, disponibile (a “tutto ciò che si muove”) e impressionabile, tal quale una pellicola. Altro attrito, altro contatto, tra un modo “ideale” di stare al mondo, frequentando tutto ciò che vi si muove e stupendone, e insieme di far cinema.

Formarsi, e professionalizzarsi, vuol dire però anche specializzarsi, perder di vista qualcosa e metterne altre a fuoco. È guadagnare in dettaglio perdendo in ampiezza, o restringere il campo della vita e acquisire in cinema. Come fa uno zoom (infatti, a un livello molto elementare, il dispositivo forse più artificiale della cinepresa, in quanto avvicinamento falso che asseconda e serve però la volontà “vera”, di veder meglio e più lontano) della nuova macchina da presa che Filip mostra felice a un collega-aiuto regista: “Proprio come i professionisti”, gli dice.

Ed ecco di nuovo l’attrito, che, per il modo in cui Kieślowski fa procedere le situazioni e il racconto filmico, sembra riguardare anche altro dall’incontro-scontro cinema/vita. E si tratta di un motivo che, da Il cinematore (soprattutto) attraversa come è noto un po’ tutta la sua filmografia: i rapporti tra caso-libertà-destino, dove il primo, per imprevedibile che sia nelle sue configurazioni, è esso stesso “legge”. Il Decalogo (1989) sarà un aggregarsi di casi, circostanze fortuite, deviazioni che di volta in volta sembrano mettere in discussione o confermare in via del tutto paradossale le norme veterotestamentarie che pure incarnano e drammatizzano. Così, Filip è volitivo, appassionato, il suo formarsi par quasi ineluttabile, e così lo stringere, l’andar più vicino e più a fondo (lo zoom) nella sua passione, nel ghermire (come il rapace che si avventa sulle tortore nell’incipit, che solo poi ci si rivelerà essere un incubo della moglie del protagonista) tutto quanto si muove.

Le tappe del fare (e apprendere) cinema (creazione di un piccolo studio, di un cineclub, realizzazione di progetti cinematografici più ambiziosi, il plauso) son piuttosto conseguenti, e sembrano procedere quasi con necessità anche se accidentate, osteggiate. Nondimeno, inattese sono le situazioni che quella progressione produce: può implicare certo conseguenze, ma chissà quali. Con uno stesso film (un documentario su un operaio storpio), che denuncia alcuni (l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro; lo spazio non facilmente agibile della fabbrica) e altri commuove (il protagonista del film e i suoi familiari), altri ancora – senza volerlo né prevederlo – si danneggiano: il responsabile delle attività culturali, che per primo aveva incoraggiato Filip, è licenziato, per dirne una. Non c’è prevedibilità e garanzie, quanto alla vita e alle sue azioni, e neppure alle inique soluzioni che il potere di turno può trovare per “mettere a tacere” voci scomode. Cosa, questa, che Kieślowski aveva sperimentato personalmente: la polizia, appropriatasi anni prima dei girati del suo Robotnicy (1971), documentario sulle proteste operaie a Danzica, se n’era poi servita per meglio identificare i manifestanti. Il che era certo tutt’altro dalle intenzioni dell’autore, reso in tal modo “informatore” involontario.

I casi non si dominano, benché causati (più o meno direttamente), e a tutto questo, e all’imponderabilità di danni o benefici, si resta dilettanti, per quanto formati. Guadagnando in profondità e perdendo in ampiezza. Come nella clausura del primissimo piano che Filip si dedica, sola autocoscienza senza più mondo, puntandosi contro la macchina, raccontandosi, definendosi e finendosi in quel gesto col quale non può che ghermire se stesso, tutto ciò che si muove è relegato fuori campo. Gesto che definisce, però, anche la curvatura più esistenzialista, meno schiettamente politica che di lì prende il cinema kieslowskiano, guardando per lo più a vite di singoli individui. Il cui vivere comunque intreccia (come non potrebbe?) quelli altrui, le cui scelte influiscono sulle esistenze di altri. Accanito, autodidatta alla vita, allo sbaraglio in quanto al dominare i casi che gli occorrono per quanto tenace (e libero d’esserlo) a seguire una forma, un percorso, un’idea di vita, sarà poi infatti anche Witold, protagonista del successivo Il caso/Destino Cieco (1981), del quale il film vede tre possibili esistenze a seconda che egli perda o meno un treno in stazione. E di volta in volta “formarsi” e reinventarsi come fiero attivista del Partito o dell’opposizione, o come medico sostanzialmente a parte da vicende politiche.

Percorsi che quindi stringono-ghermiscono la vita entro una forma, entro la fedeltà a una qualche idea, magari – continuando l’attrito cinema/vita – “ben inquadrata” e insieme cieca alle conseguenze dei gesti che essa detta. Tracciati di nuovo ineluttabili (Witold appare indifferentemente e in ogni caso fortemente volitivo, non libero di non-esserlo) e gravidi ancora di conseguenze tanto certe, o in qualche misura necessarie, quanto di per sé imprevedibili. Dei tre diversi stili di vita, dei tre film che Witold potrebbe girarne dandosi forma, corso, fini, e dei quali si potrebbe far racconto, il prologo (lungo, nell’economia complessiva del film, accelerato e dissonante) mostra brevissimi frammenti irrelati, come altrettante scene dalle diverse sue biografie. Potenziali configurazioni di vite ancora da farsi, di film ancora da scriversi e non visti, condizionabili e ripensabili – e si può allora trovare forse già qui qualcosa de La doppia vita di Veronica (1991) o le diverse versioni, circa venti e tutte possibili, approntate per il montaggio finale del film, cosmo di casi come Decalogo o le ricadute imponderabili della cinefilia di Filip. Se non fosse che, a dispetto della libertà con la quale si susseguono, sono il “tutta la vita davanti agli occhi”, successive all’urlo di lui, forse morente, come aritmia cardiaca per immagini a inizio film che anticipa in se stesso la (propria) fine.

E d’altronde, film e vite vanno avanti (incedono in dettaglio, approssimano il proprio compimento, perdono in ampiezza), prendono forma, via via sempre più chiara, sempre meno dilettanteschi e aperti andando pian piano a chiudersi, tendendo ineluttabilmente a un(a) fine e in vista di quella (e senso, idea, causa) organizzarsi, farsi. Insieme a questa consapevolezza, dell’ineluttabile e progressivo chiudersi-stringersi di film e vita col loro stesso formarsi (e che potrebbe trovare un’immagine nell’autofagia finale di Filip o nell’urlo di Witold), il cinema di Kieślowski ne vede un’altra. Quella di chi, come autodidatta che non cessa di guardare a vita e cinema pensando per l’una e l’altro, forme e sensi. Con l’inquietudine mai paga di chi le persegue (per necessità) e insieme sa che non c’è senso cristallizzato, risposta chiusa o certezza data. Aperte, invece, a “tutto ciò che si muove”, interrogandosene e facendo che si possa, da spettatori, interrogarsi. Dubitando quindi di formule e modelli dati (come Kieślowski dubita di tutte le cause-idee superiori cui Witold si vota, e ne mette alla berlina lo slancio volontaristico, come non risparmia né i censori dell’ufficio, né i cinefili fautori di Filip, come i dieci comandamenti non sono norme pacificamente acquisite, ma che potrebbero verificarsi).

Passa per questo, forse, l’essere amatori, al cinema come alla vita, stupirsi e formarsi di continuo, continuare a osservare e questionare (Senza fine, 1985, infatti, è il titolo successivo) senza che nessuna inquadratura ultima fissi del tutto in sé ciò che in vita dà da vivere e pensare. La fine o il fine, al cinema come nella vita, è insieme quel che si cerca e ciò che si vuol differire quanto più possibile.

Riferimenti bibliografici
V. Amiel, Kieślowski. La coscienza dello sguardo, Le Mani, Recco 1998.
S. Murri, Krzysztof Kieślowski, Il Castoro, Milano 2002.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2002.

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