Sulla superficie di un fiume giace il corpo di un samurai. È un corpo decapitato dal cui collo emerge un piccolo granchio. La presentazione di un campo di battaglia, una battaglia ormai conclusa, tramite una mancanza contestualizza subito quel 首 (collo) a cui fa riferimento il titolo: ne verranno tagliati molti. A farlo lui, Takeshi Kitano, ora regista ora burattinaio. Dirige il film e muove le fila della vicenda seduto su una sedia, dall’alto di una collina, quasi a commentare una nuova puntata di Takeshi’s Castle. Non a caso, dietro le apparenti spoglie del jidai-geki si nasconde la riscoperta della commedia – certamente grottesca, atipica, camuffata – e di quella vena irriverente che il regista giapponese non sembra aver mai abbandonato.

Se due anni fa House of Gucci di Ridley Scott metteva in luce l’esigenza, la necessità, di affrontare cronaca e personaggi storici ridicolizzandoli, osservandoli attraverso la lente della farsa e del grottesco, con Kubi (2023) – presentato in Italia al 41° Torino Film Festival e tratto dall’omonimo romanzo del 2019 – Kitano adotta un approccio simile per mettere in scena uno dei capitoli storici più importanti del periodo Sengoku. L’evento che prende il nome di “Incidente di Honnō-ji” – che portò alla morte per suicidio del daimyō Oda Nobunaga, indotta dal generale traditore Akechi Mitsuhide – diventa infatti per Kitano lo scenario ideale per dar sfogo alle sue ambizioni iconoclaste.

La Storia del Giappone pensata e proposta è una Storia che subisce un processo di profonda demitizzazione. Al centro non tre valorosi guerrieri, non i tre eroi di cui parlano i miti, bensì tre uomini soprannominati la scimmia, il procione e lo stempiato – rispettivamente Toyotomi Hideyoshi, Tokugawa Ieyasu e Akechi Mitsuhide – che, tra tradimenti e vigliaccherie, tra giochi di potere e di sesso, si contendono la carica di daimyō. Processo messo in atto innanzitutto tramite un’aderenza precaria alla realtà storica, che vede Kitano giocare con gli eventi e modificarli secondo la propria volontà, o meglio, secondo il proprio capriccio. Ne è un esempio il mutato destino che spetta a diversi personaggi, tra cui Tokugawa che non morì assassinato per mano del vecchio truffatore Sorori, ma sopravvisse agli eventi del 1582 fondando due decenni dopo lo shogunato omonimo.

In secondo luogo, è un processo che passa attraverso un tentativo di distruzione, messa alla berlina, dei principali valori che regolano mito e tradizione giapponese, condensati nei principi del bushido. In particolare: onore, giustizia, lealtà, sincerità, coraggio ed eroismo. Non c’è nulla di onorevole ed eroico nella morte di Oda Nobunaga, che non avviene per suicidio bensì per mano del sottoposto Yasuke. Dopo aver rifiutato l’offerta del suo padrone di ottenere una morte dignitosa, il samurai mozambicano in preda al risentimento per le vessazioni subite e alla paura della morte decapita a tradimento Nobunaga all’urlo di “sporco muso giallo”. Una morte ridicola, patetica, che non lascia spazio a letture mitiche degne della via del guerriero.

Per Kitano la Storia è fatta e scritta prevalentemente da uomini che non trovano attinenza con i valori del codice del guerriero. Sono samurai che han paura di attraversare un fiume, soldati che corrono senza sosta stremati e mezzi nudi, e comandanti che non si fanno scrupoli a far morire uomini per i propri fini. A riassumere il lavoro di disincanto è la figura del furfante Mosuke Naniwa: stupido, vigliacco e senza morale, sopravvive alle battaglie nascondendosi, non perde tempo a trafiggere un amico per fare carriera, né tanto meno a gioire dello sterminio della sua famiglia definendola “soltanto un peso”. Ma anche i grandi rituali che permettevano di preservare l’onore subiscono lo stesso esito: il seppuku è privato della sua funzione, della sua sacralità, diventando nulla più che una sorta di pantomima. Un gesto da osservare da lontano con un cannocchiale, con derisione e impazienza. Niente onore, eroismo, rispetto.

Impermeabili al processo farsesco nemmeno i rapporti sentimentali. I diversi guerrieri sembrano assumere i caratteri di giovani mondani più interessati ai meri piaceri dell’eros, della carne, piuttosto che ai princìpi della guerra. In questa dinamica non solo non trova spazio l’amore eterosessuale, ma neppure il semplice e autentico sentimento amoroso tra individui. Ciò che capeggia è il mero libido omosessuale, alimentando un’idea della non riproduttività che indirizza l’atmosfera generale verso sfumature apocalittiche. Se Oda Nobunaga appare al tempo stesso agente attivo – assoggettando i sottoposti ai suoi desideri omoerotici come fossero geishe – e oggetto del desiderio (sessuale) passivo, l’unica coppia che parrebbe preservare un sincero sentimento d’amore (Akechi Mitsuhide e Araki Murashige) si rivelerà anch’essa falsa, ennesima menzogna funzionale al gioco di potere. Così dopo tenere parole il primo elimina il secondo con semplicità, senza rimorso, gettandolo giù da un dirupo dentro una cassa.

Sono rapporti che denunciano la superficialità dei personaggi e il loro completo abbandono, rifiuto, delle virtù del mito in favore del puro piacere carnale e della vigliaccheria. Inoltre, se i samurai sottoposti di Nobunaga, come già detto, sembrano ricoprire il ruolo di geishe tramite un assoggettamento sessuale – Yasuke che pratica un intenso massaggio, Mitsuhide a cui viene promesso un rapporto con il padrone se porterà a termine l’incarico –, dietro la maschera da anziana geisha dell’unica figura femminile rilevante nel film si nasconde in realtà una spietata assassina. Tanto risoluta da ingerire del veleno pur di non essere catturata. Una vera guerriera in un mondo dominato da uomini che escludono l’altro sesso sia dalle dinamiche di potere che da quelle erotiche.

Il mondo di Kubi – e con esso le fondamenta del Giappone – è un mondo ormai allo sbaraglio, che ha perso ogni possibilità di redenzione e che non può che andare incontro ad un’inevitabile rovina. L’unico modo per raccontare la “vera” Storia – sembra suggerire Kitano – è quello di estremizzare la demitizzazione del passato. Un passato in cui non ha alcuna importanza riconoscere il volto di un nemico sconfitto per certificarne la caduta e onorarne la morte. Resta solo da tirare un calcio ad una testa mozzata, perché tra quella di un guerriero e quella di un furfante non c’è alcuna differenza. Una linguaccia fatta al pubblico dal monaco Sen no Rikyū – quasi un Arlecchino goldoniano – per denunciare definitivamente la supremazia della farsa e la complicità della sfera religiosa. È per questo che in una Storia di bugiardi e vigliacchi non si può far altro che rispondere come Sorori: “Qua sono tutti pazzi”.

Kubi. Regia: Takeshi Kitano; sceneggiatura: Takeshi Kitano; montaggio: Takeshi Kitano; interpreti: Takeshi Kitano, Hidetoshi Nishijima, Ryo Kase, Tadanobu Asano, Nao Omori, Shido Nakamura, Yuichi Kimura, Kenichi Endo, Masanobu Katsumura, Kenta Kiritani, Kaoru Kobayashi, Ittoku Kashibe, Susumu Terajima, Naomasa Musaka; produzione: Kadokawa Pictures; origine: Giappone; durata: 131’; anno: 2023.

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