Perché negli ultimi tempi si stanno moltiplicando film storici e imperniati sul conflitto di potere fra donne?

Si potrebbe pensare che tale scelta è la spia di una tendenza o esigenza da parte di molti autori cinematografici di guardare al passato come forse unico immaginario oggi praticabile, come universo estetico e politico-culturale definito al quale rivolgersi evitando un racconto diretto della nostra realtà presente sempre più complessa e illeggibile. L’apertura di un “nuovo scenario” in cui la transmodernità si disegna con alcune invarianti politiche-antropologiche assieme a un potere sempre più liquido e indecifrabile paiono indirizzare certi autori verso un passato concluso e che però si può rileggere per riverberarlo nella contemporaneità. Come se la minuziosità della ricostruzione scenografica e la descrizione, anche attraverso lo splendore dei costumi, dei riti, dei discorsi di una società fungesse da “secondo abito” o da simbolo necessario per comprendere un reale “parallelo” dell’oggi di cui è possibile decifrare, a distanza, le coordinate.

Per certi versi il film in costume e nella fattispecie La favorita recupera così il tema del conflitto di potere fra donne di potere o aspiranti al potere — tema se si vuole in controtendenza rispetto alle visioni ideologiche attuali che parlano di una sorellanza fra donne e di un’estraneità del soggetto femminile da certe dinamiche di dominazione — e che invece ha costituito almeno fino alla seconda metà del ’900 un serio nodo problematico nell’ambito del dibattito marxista e femminista per cui, come sosteneva per esempio Rossana Rossanda, l’appartenenza alla classe sociale era prevalente sull’appartenenza di genere.

In questo senso – nello scarto fra il vecchio e il nuovo mondo, fra recupero storico e lavoro artistico e creativo rigoroso — è possibile leggere anche uno scetticismo di Yorgos Lanthimos rispetto alla Storia e alla duplicità ontologica del cinema di essere una finestra sul mondo quanto una favola, al pari della realtà quotidiana vissuta su vari livelli e che è fondata da sempre sulla finzione tra esseri umani e quindi di volta in volta sulla gestione di essa da parte degli individui. La favorita è un’opera che segna un parziale distacco dai film precedenti del regista greco, basti pensare a Dogtooth (2009) e Il sacrificio del cervo sacro (2017), in virtù di un diverso linguaggio cinematografico e dove al posto della narrazione perturbata della famiglia contemporanea variamente intesa come luogo “infernale” di sottomissione e latenze inquietanti, Lanthimos propone un film ambientato nella corte britannica del ’700 e ispirato alle figure realmente esistite delle due dame cugine, Sarah Churchill e Abigail Masham, alle dipendenze di Anna Stuart che fu regina d’Inghilterra, Scozia e Irlanda per un quinquennio, dal 1702 al 1707, ed interpretata da Olivia Coleman (vincitrice della Coppa Volpi a Venezia).La realtà che l’autore reitera, e di cui è rintracciabile una evidente permanenza nella nostra società, è quella della dimensione cortigiana fondata su dinamiche di potere, di gerarchie e di subordinazione, di fragilità profonde, di seduzione e adulazione opportunistica. Da questo punto di vista, il lavoro della regia si avvale di una sceneggiatura scritta in modo tagliente e brillante, e di una costruzione visiva a tratti anche “pop” per cercare di ricreare un senso critico della storia e al contempo l’“immagine” del potere oggi. Al formalismo estetico di molti film in costume — rispondenti a una società il cui il “potente”, il “regnante” aderivano a un’immagine “divistica”, “autoritaria” — è sopraggiunta negli ultimi decenni un’inedita spettacolarizzazione del potere da parte del potere medesimo, che Lanthimos affronta servendosi però di una cornice storica di quattro secoli fa (forse proprio perché il concetto stesso di potere e politica, in un contesto democratico formale e “social”, sono profondamente mutati). Così La favorita è un film “moderno”, in cui viene descritto la degradazione del potere che nel presente lambisce i confini del voyeurismo e della pornografia, per cui i potenti e i cortigiani giungono quasi ad una auto-spettacolarizzazione, che se rivela il crollo dell’immagine dell’autorità, poi, però, coincide, come mostra il film, con un ancora più capillare ed efficace esercizio del potere.

Il ricorso alla profondità di campo, al fish-eye e soprattutto alle inquadrature dal basso (ma soltanto delle due rivali Sarah e Abigail) evidenziano la rinuncia da parte di Lanthimos di una narrazione naturalistica e di un tempo cronologico a favore di una percezione fisica dei rapporti di potere tra i personaggi come se la storia acquistasse una valenza perlopiù metafisica. Le riprese dal basso di Sarah e Abigail sottolineano il rapporto di dominio e di subalternità che si crea pure tra queste e lo spettatore; le dinamiche di conflitto spietato fra le due cortigiane determinano dei legami non-localizzabili, se non in una concretezza simbolica e duale. Così, in opposizione o in parallelo a questa scelta stilistica, si può vedere, ad esempio, Abigail cadere più volte nel fango, dopo essere stata spinta prima da un uomo che si masturba davanti a lei e poi da un altro cortigiano. Egualmente Sarah si troverà con il volto sfigurato dopo essere stata trascinata dal suo cavallo, rischiando di essere venduta come prostituta.

Il discorso dominante della regina che incarna il Potere assoluto si esplica soprattutto in primi e primissimi piani che sottolineano un esercizio dell’autorità come visione strumentale delle “favorite”, al pari di una mancanza, di uno spazio vuoto al servizio della costruzione del suo desiderio di essere amata. È dal primo piano della regina come volto anche fantasmatico che si irradiano le reazioni e i comportamenti delle due nobildonne le quali “nel discorso del potere” procedono secondo una contiguità discorsiva emblematizzata anche dall’uso delle carrellate che le ritraggono in costante movimento (rinviante anche alla loro identità mobile per esigenze politiche nei confronti della regnante e della corte).In questo senso Lanthimos decide di porsi come creatore di un’opera in definitiva politica – laddove la mise en scène prevale sulla storia — attraverso una seducente sinfonia visiva che enfatizza il lavoro di finzione registica e quindi l’artificio delle relazioni umane dettato di volta in volta dal mondo in cui ci si trova ad agire; ne deriva che lo spettatore da un lato si direziona secondo lo sguardo del regista, dall’altro ne può prendere in parte le distanze percependo il forte processo di stilizzazione e soprattutto le multiple manipolazioni del mondo che si viene raccontando.

Il personaggio della regina poi “sposta” ovvero sublima la morte dei suoi 17 figli (nella realtà storica a causa della sindrome di Hughes) in una collezione di 17 conigli che sono in varia misura anche il discrimine simbolico del suo modo di sottomettere le favorite. Come è ossessionata dalla perdita dei suoi figli, così Anna Stuart è un personaggio infantile e diabolico nell’ingenuità, negli eccessi, nelle paure di abbandono, nelle possessioni. Se quindi la sovrana “abdica” al potere istituzionale perché legato al senso di colpa e alla morte, le “favorite” invece ambiscono a tale potere proprio in quanto questa esigenza non deriva da una perdita nel senso moderno, ma dall’urgenza prepotente di sopravvivere laddove la vita fuori dalla corte è sinonimo di stupro e di schiavitù da parte degli uomini. Le tre donne (ad eccezione dei personaggi maschili) sono mostrate con un “doppio abito” che ne configura di volta in volta la condizione di potere quanto di precarietà, di impotenza quanto di rovesciamento repentino di condizione; così vediamo la regina vestita in abito regale e al contempo con i capelli sciolti e regredita in una condizione psico-fisica depressa. Abigail appare vestita da sguattera e da nobildonna, Sarah passa da un abbigliamento aristocratico a quello di un guerriero dal volto sfigurato.

Le dinamiche di potere più evidenti all’interno del film riguardano le favorite — ovvero le consigliere —ombra del potere — così che il personaggio della Regina-Donna è di volta in volta oggetto di scambio e di desiderio; tuttavia è la sovrana a costituirsi, anche e soprattutto attraverso il suo corpo, come soggetto attante e quindi propulsore dei comportamenti delle favorite nonché della loro competizione. La sessualità lesbica esperita nel film non è ad esempio ascrivibile a una tendenza dell’individuo, ma sempre a un processo di compiacimento dell’assoggettamento, a una pratica “discorsiva” cui le due dame non possono esimersi (e forse neanche la regina stessa).

In questo senso il film si conclude con una scena in cui vediamo Abigail, ormai insediatasi a corte, calpestare un coniglio il cui guaito allarma la regina. Quest’ultima quindi ordina ad Abigail di masturbarla; e per la prima volta è la monarca ad essere ripresa dal basso rispetto alla dama che è inginocchiata. Con una dissolvenza incrociata Lanthimos ci mostra poi il primo piano della dama sfumare sull’immagine dei conigli. Quest’ immagine morente e metaforica ci pare suggerisca il personaggio della regina e quindi del potere autentico come madre sessualizzata e la favorita Abigail come figlia o individuo ridotto ad oggetto-feticcio erogeno.

Se La favorita è un film politico per il modo in cui ripartisce il visibile, è anche vero che — ponendo al centro del discorso l’esercizio del potere e la lotta per ottenerlo — è un film senza politica, ovvero ci dà un affresco della nostra società in cui l’eclissi della politica è intrecciata con l’esigenza collettiva di una felicità consensuale e dell’abdicazione di sé per pervenire al potere, e in cui sembrano molto deboli quindi le spinte e le possibilità di condurre un discorso politico (secondo l’idea di Jacques Rancière che contrappone quest’ultimo al potere). Ma è plausibile affermare dunque — con il filosofo francese — che tentare di sottrarre un film alla teologia del tempo, tanto al lutto per la catastrofe irreversibile quanto a orizzonti utopistici di salvezza, può dischiudere se non altro la tensione verso una comprensione ed elaborazione delle nuove forme correnti del dominio.

Riferimenti bibliografici
C. Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1975.
J. Rancière, Il disagio dell’estetica, Edizione ETS, Pisa 2009.

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