La Biennale di Venezia ha assegnato a Keith Jarrett il Leone d’Oro alla carriera, che gli sarà consegnato il prossimo settembre nel corso del 62° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia. Chiunque voglia avvicinarsi a quello che, nelle motivazioni del premio, viene definito “un maestro universale della storia della musica”, non può evitare di riflettere su una delle sue più emblematiche affermazioni, riportata nel libro-intervista Il mio desiderio feroce: «Ogni nota, assolutamente ogni nota, è frutto di una decisione presa nello stesso tempo in cui l’ascoltatore la sente. Non è scritta su uno spartito e non è stata neanche prevista prima. Ogni nota è nel presente ed è viva» (Jarrett 1990, p. 61).
Una simile affermazione, fatta da uno dei più celebrati pianisti jazz, anzi da quello che, a partire da The Köln Concert (1975), è stato indicato come l’archetipo stesso dell’improvvisatore, può voler dire due cose. Jarrett vuole ognuna delle note che suona: il suo è un assenso quasi nietzschiano a ciò che accade tra le sue mani e la tastiera. Oppure egli sa in ogni momento che cosa sta facendo, poiché lo decide in tempo reale e con piena padronanza. Difficile scegliere, difficile addirittura comprendere le due alternative in campo: entrambe sono infatti paradossali e ci restituiscono l’immagine titanica di un musicista allo stesso tempo padrone del materiale musicale che maneggia e dominato da una pulsione totalizzante. Eppure, la seconda opzione (Jarrett sa in ogni momento cosa sta facendo) pare offrire più di un appiglio e sembra sorretta anche dalla constatazione empirica di ciò che succede durante le sue celebri improvvisazioni per piano solo. (Lasciamo da parte in questo ragionamento la sua attività in trio – con il contrabbassista Gary Peacock e con il batterista Jack DeJohnette – che ha contribuito a fissare un nuovo canone per l’interpretazione degli standard della tradizione jazzistica, così come la sua sorprendente attività di compositore e di interprete bachiano – una registrazione su tutte: le Goldberg Variations (1989) al clavicembalo – e mozartiano).
Quando suona, Jarrett canticchia. Certo, geme e si agita, batte i piedi, si alza e si pianta davanti al pianoforte (motivo per cui il suo uso del pedale è così intermittente e caratteristico), si stringe con lo strumento in quello che i commentatori non cessano di paragonare a un amplesso amoroso. Ma soprattutto canta. Questa pratica, invalsa presso molti musicisti jazz, viene trasformata da Jarrett in un marchio di fabbrica che attesta una piena e continua padronanza del flusso sonoro. Non è sbagliato dunque affermare che ogni nota di Jarrett è frutto di una decisione perché egli sa, in ogni momento, che cosa sta suonando – lo sa fino al punto di poterlo cantare –; tuttavia non bisogna intendere questo sapere in termini cognitivi.
Nel suo XXIII seminario, lo psicoanalista Jacques Lacan (2005) delinea i tratti del sinthomo, figura di un saperci fare con il sintomo che non necessariamente deve passare per la terapia analitica ma che, come nel caso di Joyce, può attingere alle risorse dell’arte per costruire qualcosa per mezzo del sintomo stesso. Ora, Jarrett è la perfetta incarnazione musicale di quello che Lacan chiama sinthomo. Lo dimostra quando, affetto da sindrome di affaticamento cronico, abbandona le scene per alcuni anni tornando poi con la raccolta di ballade dedicate alla moglie The Melody at Night, with You (1999). Bisogna intendersi: la sua arte provoca un’ammirazione stupita non perché egli abbia superato i suoi tic, al limite del tourettismo, o i suoi tormenti (che sono poi l’altra faccia delle sue estasi). Le sue manie non sono affatto alle spalle: basti pensare all’incomprensibile diktat che impone ai suoi ascoltatori, che non possono né fotografare né tossire per tutta la durata dei concerti, o che vengono lasciati al buio, come durante un’esibizione a Perugia nel 2013. Quello che conta però è ciò che Jarrett riesce a fare del suo sintomo: quello che Lacan chiamerebbe escabeau, un «piedistallo su cui si mette il bello» (Miller 2006, p. 18).
Se dunque Jarrett sa in ogni momento che cosa sta facendo, è perché questo sapere coincide sostanzialmente con un saper fare uso di sé, del proprio corpo dolente (pare che abbia problemi alla schiena e alle braccia proprio per via dell’inconfondibile postura con cui siede al piano) e delle proprie ossessioni. Queste sono meno il vezzo di una celebrity (ovviamente ci sarà anche questo aspetto) e più la necessità di un rapporto onesto e spregiudicato con i propri limiti: chi scrive ha assistito, durante un concerto a Roma nel luglio 2014, a un suo ripensamento in presa diretta, quando l’inizio di un’improvvisazione è stato repentinamente bloccato per ricominciare con una nuova idea, questa volta quella (ritenuta) giusta. Il suo rigore arriva a fargli ammettere un passo falso, una “stecca”, anche laddove non c’è partitura rispetto alla quale misurare l’errore.
Un altro aspetto della questione è che Jarrett sa che cosa sta facendo e lo sa in ogni momento («Ogni nota è nel presente ed è viva», come si è detto). Nella tradizione occidentale, la progressiva differenziazione tra compositore, esecutore e ascoltatore ha determinato la frantumazione dell’unità temporale della musica. Quello che nasce come un processo fluido e continuo viene così articolato in una molteplicità di passaggi, permettendone anche il differimento: la partitura è l’opera in potenza, così come la traccia audio conserva la virtualità dell’ascolto. L’improvvisazione, di cui Jarrett è l’eroe contemporaneo, abolisce questa distinzione di tempi e di piani, facendo collassare composizione, esecuzione e ascolto nella decisione del momento. È per questo motivo che il caso di Tomasz Trzcinski, il pianista polacco che ha eseguito e registrato una sua versione del capolavoro di Jarrett The Köln Concert a partire da una trascrizione pubblicata nel 1991, colpisce immediatamente l’attenzione del teorico (si veda il saggio di Gasparini 2017). Trattare la musica di Jarrett secondo i criteri imposti dal concetto di opera (fedeltà alla partitura, disponibilità a molteplici esecuzioni documentabili tramite registrazione) ha l’effetto paradossale di mettere in risalto l’eccedenza dell’improvvisazione rispetto ai consueti schemi dell’ontologia musicale (cfr. Bertinetto 2016).
Il minimalismo lirico di Jarrett, le sue ripetizioni ipnotiche e gli improvvisi sbocchi melodici, riportano all’attenzione il carattere evenemenziale della musica, il suo accadere senza possibilità di correzione. Nell’epoca della smaterializzazione del supporto (non più vinili o cd, ma files di dati), la musica non ha perso il suo carattere di oggetto, venduto e comprato, trasferito e scaricato, sempre disponibile ad essere tirato fuori dai nostri archivi. Il lavoro di Jarrett (con tutta l’ambiguità del caso: è pur sempre uno degli artisti di punta della ECM, in fondo produce dischi) ci impedisce di dimenticare il motivo per cui la musica conserva un posto di rilievo nell’ambito delle nostre esperienze: perché, di diritto e più di altre forme artistiche, essa ci pone davanti alla dolorosa e gloriosa irripetibilità dell’attimo.
Riferimenti bibliografici
A. Bertinetto, Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione, il Glifo, Roma 2016.
S. Gasparini, Le Köln Concert de Tomasz Trzcinski, in A. Arbo, P.-E. Lephay (a cura di), Quand l’enregistrement change la musique, Hermann, Paris 2017, pp. 219-239.
K. Jarrett, Il mio desiderio feroce. Conversazioni con Kunihiko Yamashita, Socrates, Roma 1994.
J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2006.
J.-A. Miller, Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII “Il sinthomo”, Astrolabio, Roma 2006.