“I miei ricordi sono tutti pezzi di film”: questa frase, pronunciata da Jay Kelly, interpretato da George Clooney e protagonista del film di Noah Baumbach presentato in concorso all’82° Mostra del Cinema, ben sintetizza l’idea di autobiografia cinematografica riscontrabile negli scritti di Stanley Cavell. Per il filosofo americano, infatti, noi facciamo esperienza nel cinema, perché attraverso le sue storie esso ci forma, così come i volti dei suoi divi ci accompagnano lungo le nostre vite. Le immagini cinematografiche diventano così frammenti della nostra stessa esistenza, elementi che si intrecciano con le biografie individuali e che ci accompagnano lungo il tempo, proprio come accade con i ricordi personali.

Come spiega Cavell nell’apertura di Il mondo visto: «I ricordi del cinema si intrecciano per filo e per segno con quelli della mia vita. Durante il quarto di secolo (all’incirca dal 1935 al 1960) in cui andare al cinema era una parte normale della mia settimana, non mi sarebbe venuto in mente di scrivere uno studio sui film più che di scrivere la mia autobiografia. Dopo aver completato le pagine che seguono, sento di aver composto una sorta di memoir metafisico; non la storia di un periodo della mia vita, ma un resoconto delle condizioni che essa ha soddisfatto» (2023, p. 31).

Anche per Jay Kelly, attore hollywoodiano di successo – alla pari di altri divi americani quali Cary Grant o James Stewart, come suggerisce il mantra che ripete a sé stesso per darsi coraggio, accostando il suo nome fittizio a quello delle star – che ha trascorso una vita di fronte alle macchine da presa, riflettere sulla propria vita significa innanzitutto ricordare i propri film. È per questo motivo che, trovandosi solo dopo la partenza della figlia più piccola per un viaggio in Europa, il suo avvicinarsi a lei non può che assumere una forma cinematografica: l’attore decide così di recarsi in Toscana, dov’è diretta la figlia, per accettare un premio in omaggio alla sua carriera, dal titolo bergmaniano L’albero delle fragole. Infatti, come Isak Borg in Il posto delle fragole, anche Jay affronta un viaggio costellato di ricordi e di visioni: piccole epifanie che aprono squarci su eventi del passato, in una continua oscillazione tra memoria e presente.

Se nella sua vita personale l’attore porta con sé un bagaglio di pentimenti e fallimenti – il senso di colpa per aver sottratto un ruolo all’amico, il divorzio, la distanza dalle figlie e il silenzio ostinato di quella maggiore – la sua immagine nel cinema appare invece levigata e impeccabile. Come gli rinfaccia la figlia, la prima volta che lei lo vede celebrare un Natale in famiglia è sulla televisione, mentre interpreta il ruolo di padre in uno dei suoi film: così la star “Jay Kelly” risulta del tutto inaccessibile ai suoi affetti, i quali hanno fatto esperienza di lui soprattutto attraverso lo schermo, motivo per cui la vita domestica, negata o mancata nella realtà, trova compimento solo nel cinema. Riprendendo il ragionamento che Cavell sviluppa sulla figura divistica di Bogart, si potrebbe affermare che il nome Jay Kelly «significa “la figura che è stata creata in un determinato insieme di film”. La sua presenza in quei film è ciò che lui è, non solo nel senso in cui una fotografia di un evento è quell’evento; ma nel senso che, se quei film non esistessero, [Jay Kelly] non esisterebbe, e il nome [Jay Kelly] non avrebbe il significato che ha» (ivi, p. 66). Ma se Jay sembra preferire la vita nel cinema, è perché lì le azioni possono essere rifatte, perfezionate, corrette. Infatti, già nelle prime scene lo vediamo come un attore ossessivamente perfezionista, disposto a ripetere più volte le stesse azioni pur di raggiungere un ideale di compiutezza. Questo atteggiamento, trasferito alla sfera privata, si traduce in un tentativo tardivo di rimettere mano al proprio passato, di trattare i rapporti familiari come fossero scene da rigirare, con la speranza di correggere errori e incomprensioni.

Oltre a riprendere la struttura del film di Bergman, nel suo viaggio in Italia Baumbach guarda certamente al cinema metariflessivo di Fellini, ma anche a quello di Tornatore: infatti, come in Nuovo Cinema Paradiso, nella scena finale della premiazione la sala cinematografica si popola delle figure che abbiamo incontrato attraverso i ricordi dell’attore. In quest’ultima scena, viene inoltre proiettato un montaggio destinato a celebrare Jay Kelly, ma che mostra invece scene strappate dalla filmografia del suo interprete, George Clooney: l’attore fittizio si dissolve nella star reale, e il racconto di un personaggio si presenta in maniera più evidente come riflessione sulla figura divistica che lo incarna. Questo filmato funge da «punto finale» di un memoir metafisico che deve essere letto attraverso il mondo proiettato del cinema, con la singolarità della sue star e i ricordi che conserviamo delle nostre visioni.

Riferimenti bibliografici
S. Cavell, Il mondo visto. Riflessioni sull’ontologia del cinema, Cue Press, Imola 2023.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 1, Jaca Book, Milano 1991.

Jay Kelly. Regia: Noah Baumbach; sceneggiatura: Noah Baumbach, Emily Mortimer; fotografia: Linus Sandgren; montaggio: Valerio Bonelli, Rachel Durance; interpreti: George Clooney, Adam Sandler, Laura Dern, Billy Crudup,
Riley Keough, Grace Edwards, Stacy Keach, Jim Broadbent, Patrick Wilson, Eve Hewson, Greta Gerwig, Alba Rohrwacher; produzione: Pascal Pictures, Heyday Films; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito; durata: 132′; anno: 2025.

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