“Può cambiare le procedure, ma non i fatti”. Così Picquart, promosso a capo del controspionaggio francese, si rivolge al suo superiore quando gli sottrae il dossier dell’affaire Dreyfus. Il punto è che le procedure sono il modo in cui i fatti, investiti dal potere, prendono corpo, diventano tali. J’accuse (L’ufficiale e la spia) di Polanski è un grande film sul potere, sulle procedure di falsificazione che opera e su quelle di veridizione che gli si possono contrapporre, con grande rischio.

Già l’inizio è chiaro.  Siamo nel gennaio del 1895, il capitano Alfred Dreyfus viene sottoposto in una piazza d’armi davanti alle truppe francesi della Terza Repubblica ad un rituale di degradazione: gli vengono tolti i gradi, gli viene spezzata la spada. Sarà deportato all’isola del Diavolo. L’accusa è di spionaggio a favore dei tedeschi

La prova schiacciante è un bordereau che viene riconosciuto da un grafologo come scritto proprio da Dreyfus. Questa prova non può essere semplicemente reperita, va costruita. I massimi gradi dell’esercito francese invitano pertanto Dreyfus ad un appuntamento, chiedendogli di venire senza divisa (disarmandolo dunque simbolicamente), per estorcergli con l’inganno un campione di grafia. Per fare questo il generale si trasforma letteralmente in un metteur en scene, distribuendo oggetti e uomini sul set dello studio.

Picquart, dopo la sua fresca nomina, scopre che quel bordereau aveva probabilmente un altro autore, il maggiore Esterhazy, il traditore per denaro. Dreyfus tra l’altro era sufficientemente benestante per non doversi vendere per così poco. Il vero traditore sarà scoperto dalla lettura di altri segni, non solo la scrittura. Saranno anche le fotografie e la loro messa in serie  (appese in sequenza) ad indicare nell’operazione di investigazione la scoperta del colpevole.

Ma questa scoperta è un problema. Le gerarchie militari avevano risolto un caso spinoso, tacitato uno scandalo, trovando un capro espiatorio: un ufficiale ebreo dello stato maggiore francese, un profilo anodino, da poter sacrificare all’antisemitismo imperante nella Terza Repubblica (come ci ricorda tra l’altro Hannah Arendt nelle pagine che dedica al caso Dreyfus in Le origini del totalitarismo). L’adesione ideale ai valori dell’esercito impedisce a Picquart di sposare le logiche del potere e le sue ciniche dinamiche. Resiste e prende le distanze, anche disubbidendo agli ordini, rifiutandosi di sottostare ad un processo sommario che gli stanno intentando i suoi superiori.

Il potere non è mai “solido”, non si stringe come un “oggetto”. Il potere riposa sulla risposta dell’“altro”. Se all’ordine intimato di “alt” non ci si ferma, il potere si incrina, come la smorfia che appare sulla faccia del generale, quando Picquart esce indifferente dalla stanza. Ma c’è anche chi a quel potere si subordina, e che agli ordini obbedisce. Come dice un subordinato a Picquart: «Siamo soldati e il nostro compito è obbedire agli ordini. Se mi dicono di uccidere io lo faccio». Il potere militare è uno dei grandi poteri disciplinari, che rende difficile sottrarvisi, se non pagando un prezzo alto (Picquart viene arrestato). E il potere dell’esercito non si attiva solo attraverso gerarchie e ordini, ma anche attraverso il segreto. Un potere ed uno Stato non esisterebbero senza un lato oscuro, che non può e non deve essere esplicitato, e a difesa del quale si costituiscono apparati di sicurezza.

A questo potere si può solo opporre un altro potere, quello dell’opinione pubblica, della stampa. Dallo spazio chiuso del potere militare a quello caotico dei giornali e della folla divisa tra dreyfusards e anti-dreyfusards  (divisione che ha segnato un periodo non breve della storia francese, portando strascichi in buona parte del Nocevento). 

Dopo la fase investigativa, il film vira verso la fase processuale e qui la messa in scena sociale diventa più articolata. Non più solo le divise militari, gli ordini impartiti ed eseguiti, ma la teatralità del processo, l’alternarsi di figure, una gestualità meno controllata. Una intera società che si mette in scena, e di cui il processo diventa specchio e ribalta esemplare. Hannah Arendt lo scrive: «Le dramatis personae del processo Dreyfus potrebbero essere tutte uscite dalle pagine di Balzac: i generali, mossi dallo spirito di ceto e intenti a coprire spasmodicamente i membri della propria cricca; e il loro antagonista, Picquart, con la sua onesta calma, perspicace e lievemente ironica».

Tra tutte queste presenze spicca quella di Zola e del suo J’Accuse, pubblicato sul quotidiano l’“Aurore”. Il veemente attacco dello scrittore francese alle gerarchie militari scuote l’intera società francese e costringe alla riapertura del processo. La condanna viene confermata, sia pur in forma più limitata.

Sarà la grazia data dal presidente francese (a cui si era detto contrario Picquart in nome di una verità da rivendicare) ad intervenire “dall’alto” nel dramma, orientandolo verso una soluzione che sanava le profonde spaccature che avevano segnato la società dell’epoca. L’affaire Dreyfus è stato dunque la cartina di tornasole di tutta una situazione, in cui il caos sociale, le convulsioni della vita democratica e i conflitti di potere ad essi legati si sono canalizzati su un caso esemplare, trasformato in conflitto tra classi, ideologie, posizioni sociali e poteri.

L’ultimo atto del dramma lo spinge verso la “commedia”: «Che il dramma Dreyfus fosse semplicemente una commedia, non una tragedia, divenne evidente soltanto nel suo ultimo atto. Il deus ex machina che impose una tregua al paese profondamente diviso […] fu l’Esposizione mondiale di Parigi del 1900» (Arendt 2009).

E in “commedia” si risolve al fondo non solo il destino sociale dei personaggi (Picquart diventerà ministro e Dreyfus sarà reintegrato nell’esercito), ma ciò che nel film si sottrae al potere, la storia d’amore clandestina fra Picquart e la moglie  di un militare (interpretata da Emmanuelle Seigner). La storia dura anni fino a quando i servizi segreti non la rendono pubblica per incastrare Picquart. La donna sarà costretta ad allontanarsi da Parigi e divorzierà. Passa del tempo, i due si ritroveranno. Li vediamo insieme in un parco. E anche se non convoleranno a nozze per tutto ciò che accaduto, si prenderanno comunque sotto braccio e continueranno a stare insieme.

Ciò che fa compiere al film di Polanski uno scarto decisivo rispetto ai modelli veritativi del cinema americano o alle ricostruzioni storico-sociale di un periodo è qualcosa di radicale. La verità non appartiene né all’investigazione (prima parte) né al processo (seconda parte), cioè non appartiene al sistema del giudizio. Nel primo caso la falsificazione delle prove e il conflitto dei poteri decidono solo chi comanda; nel secondo caso il gioco delle parti diventa una recita sociale dove le polarità contrapposte cancellano la possibilità di una giusta valutazione del singolo caso.

La verità allora risiede in una dinamica processuale che attraversa queste fasi e passa dal capro espiatorio iniziale (la condanna e la degradazione di Dreyfus) all’indagine conoscitiva (gli indizi e la scoperta di una verità) ai conflitti del processo (la lotta per rivendicare la verità scoperta) alla grazia finale, come il momento in cui i personaggi si ritrovano “riconciliati”, per quanto possibile, con il loro ruolo, i loro sentimenti, la loro vita.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

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