Perché aprire – o riaprire – oggi un discorso sull’istituzione al punto d’incrocio tra pensiero e prassi? Cosa fa della prassi e del pensiero, intesi nella loro potenzialità istituente, un passaggio necessario della filosofia contemporanea? Forse niente più della pandemia che ha sconvolto il mondo, come mai era accaduto prima, ci offre la possibilità di rispondere con puntualità a queste domande. L’unica risorsa che abbiamo, nell’affrontare questa terribile crisi, è costituita dalle istituzioni – pensate, e praticate, non nella loro fissità, ma nel loro mutamento. Non come sono state fino adesso, ma come saranno, inevitabilmente modificate da questo evento, esso stesso, a sua volta, drammaticamente istituente.

Quando parlo di istituzioni non mi riferisco solo agli stati nazionali o federali, ai poteri regionali o internazionali, all’organizzazione mondiale della sanità o alle banche centrali. Mi riferisco anche a tutti i soggetti coinvolti dalla pandemia, a partire dalle popolazioni nel loro insieme e nelle loro parti, alle categorie professionali, in particolare mediche e sanitarie, fino alle organizzazioni volontarie, alle associazioni non governative, ai centri di raccolta di fondi di beneficenza, a tutte le attività orientate al sostegno delle persone colpite dalla malattia e dai danni collaterali da essa generati. E ancora ai comportamenti, alle attività, alle forme di pensiero che la presenza del Coronavirus ha attivato in tutti noi, in difesa della vita individuale e collettiva, dei singoli e delle comunità. Tutto ciò, oltre che svolgersi necessariamente all’interno delle istituzioni presenti, è esso stesso parte integrante di un processo istituente che ha già trasformato la nostra esistenza attuale e che presumibilmente trasformerà ancora di più quella futura.

Da questo punto di vista – che congiunge indissolubilmente vita e istituzioni – appare inadeguato tanto l’atteggiamento di chi tende a contrapporle, nel presupposto che le istituzioni vogliano opprimere, catturare, violare la vita, tanto il punto di vista di chi c’invita a obbedire ad esse senza incalzarle, criticarle, spingerle a una trasformazione radicale.

Ciò che risulta da entrambi questi atteggiamenti, in fondo speculari, è un blocco del mutamento storico – o nella forma di un contrasto sterile e senza sbocchi o in quella di una pura adesione all’esistente. Ciò che sembra sfuggire agli uni e agli altri è che l’istituire, nel significato più intenso del termine – che è quello di iniziare, di dar vita a qualcosa di nuovo –, non è fuori di noi, ma è il motore delle nostre azioni, dei nostri comportamenti, dei nostri pensieri.

Ma – nella logica dell’istituzione – non si tratta di un inizio assoluto, indipendente da quanto ci circonda, isolato nell’autonomia di un gesto solitario. Esso è inevitabilmente condizionato dal contesto in cui si attua, segnato dagli orientamenti che ci precedono, anche quando, e forse soprattutto quando, li contesta per cambiarli. Ciò è tanto più evidente oggi, quando la nostra vita quotidiana è regolata da prescrizioni sociali prima inimmaginabili, di cui sentiamo allo stesso tempo la necessità e il peso, come accade in tutte le procedure immunitarie. Oggi più che mai la pratica di immunizzazione che ci viene prescritta si rivela allo stesso tempo necessaria e potenzialmente oppressiva.

Questo carattere ambivalente del processo di immunizzazione è già iscritto nella sua genealogia moderna. Se, come è evidente, nessun organismo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere senza un sistema immunitario che lo protegga – si pensi al ruolo del diritto in tutte le società antiche e moderne –, quando esso si spinge al di là di una certa soglia minaccia di minare i presupposti stessi dell’esistenza, come avviene, all’interno del corpo umano, con le malattie autoimmuni.

Se tale soglia sia stata varcata dalle misure di distanziamento sociale, o di riduzione della privacy dovuta ai dispositivi di controllo e di tracciamento dei movimenti degli individui, è oggetto di una discussione che in qualche modo coinvolge il nostro rapporto con le istituzioni. Personalmente ritengo che forme di invadenza da parte delle autorità che ci governano, spesso con insufficiente capacità di ascolto dei nostri bisogni, ci siano state. La necessità di velocizzare e di centralizzare le decisioni ha portato in quasi tutti i Paesi aggrediti dal Coronavirus ad accrescere il peso del potere esecutivo su quello legislativo, spesso chiamato unicamente a ratificare decisioni già prese.

Tuttavia bisogna guardarsi dall’interpretare questi elementi inquietanti come segni di una svolta autoritaria – quasi una nuova forma di totalitarismo che starebbe distruggendo dall’interno le democrazie contemporanee. A distinguere quanto accade nei paesi democratici da forme di dispotismo è l’assenza di qualsiasi intenzione di asservimento delle popolazioni. Nulla di quanto è accaduto era immaginabile perché determinato da un evento contingente e del tutto inaspettato.

Quello che in questi mesi, in diversi paesi, si è andato configurando come stato di emergenza – o di eccezione – non è il l’esito di una volontà sovrana che ha adoperato la pandemia per attaccare le libertà fondamentali, ma di una necessità oggettiva che, come insegna Santi Romano all’origine dell’istituzionalismo giuridico, è fonte di legge non meno di altre. Scambiare la necessità con la volontà, o la contingenza di un evento imprevedibile con un progetto autoritario, è frutto di gravi equivoci. È vero che la dichiarazione, e la stessa definizione, di stato di urgenza nasce sempre da una decisione governativa. Ma in questo caso la condizione di necessità – in relazione alla salute pubblica – è talmente palese da non consentire dubbi in proposito. Naturalmente i singoli provvedimenti, e anche il loro insieme, sono emanazione dei governi, anche se nei regimi democratici i decreti governativi devono essere comunque autorizzati dai parlamenti.

Ma il problema, per essere colto in tutta sua complessità, va guardato anche dal suo rovescio. Cosa sarebbe successo, nella crisi pandemica, in assenza o nel silenzio delle istituzioni? Chi si sarebbe fatto carico di fronteggiarla, pur con gli errori, i ritardi, le incongruenze che dovunque ne hanno punteggiato l’attività di contrasto? Il problema non sta nella inadeguatezza delle istituzioni in quanto tali, quanto piuttosto nella loro scarsa preparazione, nella lentezza e confusione dei loro interventi, nella mancata radicalità dei provvedimenti presi nei confronti dei segmenti più fragili delle popolazioni coinvolte. Ciò tanto da parte delle istituzioni nazionali che da quelle internazionali – in modo particolare dall’Unione Europea.

Mai come in questo caso la crisi, gigantesca e drammatica nelle sue dimensioni, va adoperata come un’occasione di riequilibrio dei rapporti di forza tra paesi forti e paesi deboli e, all’interno di ciascuno di essi, tra i ceti privilegiati e quelli svantaggiati. Del resto essa, nei suoi effetti sociali, ma anche nelle sue conseguenze letali, è stata certamente condizionata da scelte politiche fatte in passato che, in alcuni paesi europei e americani, hanno portato allo smantellamento della sanità pubblica e in generale del welfare. Ma proprio ciò attesta come lo scontro tra interessi diversi e contrapposti nasca sempre all’interno delle istituzioni ed abbia a oggetto la loro stessa pratica.

Sanità pubblica, organizzazione del lavoro, luoghi deputati alla formazione e alla ricerca cos’altro sono se non istituzioni? E dove altro si dovrebbe condurre la battaglia politica per il loro mutamento, se non all’interno di esse? All’interno, ma anche all’esterno – nei partiti, nei sindacati, nei movimenti, nei media, nei siti, nel lavoro di scrittura e di pensiero. Tutti luoghi esterni alle istituzioni statali, ma a loro volta, da un altro punto vista, istituzioni anch’essi. Si potrebbe dire che il movimento istituente si costituisca sempre sul margine tra interno ed esterno, dentro e fuori, tra ciò che è già istituito e ciò che spinge per esserlo. Da questo punto vista è stato ben detto, lungo una linea di pensiero che prende origine da Machiavelli, che le istituzioni non soltanto non escludono il conflitto politico, ma nascono da esso e, se funzionano come devono, lo riproducono continuamente.

Riferimenti bibliografici
S. Romano, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata 2018.

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