Partiamo dalle mascherine. Perché le portiamo? Perché è obbligatorio portarle (come deciso dal DPCM del 13/10/2020, che stabilisce «l’obbligo, su tutto il territorio nazionale, di portare con sé i dispositivi di protezione delle vie respiratorie e di indossarli […] in tutti i luoghi all’aperto»). Perché siamo preoccupati per la nostra salute, e non vogliamo infettarci. Perché ci preoccupiamo della salute degli altri, e non potendo essere sicuri di non essere “portatori sani”, li proteggiamo dal nostro respiro potenzialmente infetto. Nel primo caso le portiamo perché lo Stato vuole così. Nel secondo perché prima di tutto pensiamo a noi stessi. Nel terzo perché pensiamo alla comunità di cui facciamo parte. È sgradevole portare la mascherina sul viso, è il marchio mnemonico (prima ancora che sanitario) dell’epidemia ma ancora di più di una condizione in cui la nostra libertà personale viene fortemente limitata. E fosse solo la mascherina, non si può andare al cinema, non si può uscire dai confini del comune di residenza, non si è liberi di invitare a casa propria più un numero definito di persone (quattro, sei?). Per non parlare delle discussioni sull’eventuale obbligo a vaccinarsi. Lo Stato si intromette sempre di più nelle nostre vite. Dall’altro lato ci siamo noi, le nostre vite appunto, i nostri desideri.
È questa la contrapposizione – sempre più netta e radicale – di cui discute l’ultimo libro di Roberto Esposito, Istituzione, «la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana. Bisogna resistere alla tentazione ricorrente di considerarle due polarità divergenti, solo a un certo momento destinate a incontrarsi, o scontrarsi. E riconoscerle, piuttosto, come i due lati di un’unica figura che delinea insieme il carattere vitale delle istituzioni e la potenza istituente della vita» (Esposito 2021, p. 7). La gestione amministrativa e sanitaria della pandemia ha reso un concetto altrimenti remoto come quello di “biopolitica” improvvisamente un’evidenza quotidiana: la politica ormai si esercita direttamente sui corpi, sui polmoni, sull’alito, sul sangue. Che la motivazione di questa invadenza sia salvaguardare la vita, primum vivere, non toglie che si tratta di un’invadenza estrema a cui, almeno nella parte ricca del mondo, non si era abituati e a cui, soprattutto, non vogliamo abituarci.
E questo pone un problema enorme, perché è sempre più chiaro che le ragioni della vita sembrano essere sempre più lontane da quelle dell’istituzione. Al punto che, come la sgangherata e minacciosa rivolta di Capitol Hill ha mostrato, sempre più persone pensano che sia arrivato il tempo di liberarsi completamente delle istituzioni, e prima di tutto dello Stato invadente e liberticida. E così, scrive Esposito, si finisce per stabilire «una rigida contrapposizione tra istituzioni e movimenti. […] Il risultato di una simile divaricazione è stato uno scollamento sempre più netto tra politica e società. A una logica istituzionale chiusa in sé stessa, incapace di parlare al mondo sociale, si è opposto un pulviscolo di proteste diverse, incapaci di saldarsi in un fronte politicamente incisivo» (ivi, pp. 20-21).
La posta in gioco, allora, è una contrapposizione sempre più radicale che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni. Perché è evidente che l’invasato con l’elmo cornuto non può rappresentare l’alternativa libertaria alle normative sanitarie promulgate da organismi tecnico-scientifico per quanto privi di legittimazione democratica. Per disattivare questo dualismo Esposito segue una doppia via: da un lato mostra come la vita è già sempre anche vita istituita, e quindi politica. La vita umana, cioè, non è mai naturale e spontanea e quindi non può presentarsi come un’alternativa radicale rispetto alla politica. La seconda via consiste nel mostrare, invece, il carattere mobile e adattabile della dimensione politica, che contiene al suo interno la capacità di accogliere le istanze vitali.
L’esempio forse più interessante di un modo non dualistico di pensare la relazione fra vita e istituzione è dato dalla capacità di parlare, una capacità inseparabile dalla vita umana, e che, tuttavia, non è una capacità propriamente individuale e nemmeno del tutto di origine biologica. L’infans, cioè il corpo naturale umano, è privo di linguaggio. La nascita biologica non è sufficiente a definire l’umanità (in senso cognitivo e anche politico) di un membro della specie Homo sapiens; ecco perché:
A questo primo inizio ne ha fatto seguito un altro, costituito dalla facoltà del linguaggio, che si può considerare una seconda nascita. È da essa che ha preso origine la città, la vita politica che ha aperto l’orizzonte della storia, pur senza mai recidere il filo che la lega alla propria radice biologica. Per quanto diverso da esso, il regime del nomos non si è mai separato da quello del bios. Anzi la loro relazione si è fatta sempre più stretta, al punto che oggi è divenuto impossibile parlare di “politica” fuori dal riferimento alla vita (ivi, p. 8).
Una lingua è infatti il prototipo di ogni istituzione, perché è collettiva e quindi non è di nessuno, e perché è indipendente rispetto alle volontà dei singoli parlanti (questo vuol dire che la lingua è “arbitraria”). Allo stesso tempo una lingua non “vive” più se nessun corpo umano la usa nella vita quotidiana; l’istituzione lingua, cioè, non sopravvive (se non come lingua “morta”, appunto) se perde il contatto con la vita dei parlanti. Allo stesso tempo ogni parlante, per formulare ed esprimere i propri ragionamenti, usa una lingua che non è di sua invenzione, e tantomeno è un “linguaggio privato”. Questo significa che anche l’individuo più creativo e originale presuppone un dispositivo – la lingua – che è completamente al di fuori del suo possesso e controllo. Se esiste una istituzione del comune questa è proprio la lingua. Il caso della lingua è utile per capire il modello antidualistico che propone Esposito, un modello tanto più necessario in un tempo in cui le spinte antistituzionali trovano spesso buone ragioni (o almeno buoni alibi) nelle prassi effettivamente intrusive tenute da molti governi per contrastare la pandemia: «Il problema dei nostri sistemi politici è sempre quello di trovare un equilibrio sostenibile tra comunità e immunità, protezione e compressione della vita» (ivi, p. 18).
Rimanendo nell’esempio del linguaggio, immaginiamo qualcuno, ad esempio un poeta, che cerchi di stravolgere la lingua comune per liberarla di tutte le incrostazioni abitudinarie, dei luoghi comuni e dei clichés. Anche per lo sperimentatore più radicale c’è un limite oltre il quale non si può spingere, quello della possibilità della comprensione reciproca: se tiene, infatti, ad essere letto, occorre che la lingua che “inventa” sia sufficientemente vicina a quella comune da permettere la mutua intercomprensione. La lingua standard è sempre, per definizione, stantia e polverosa. Ma una lingua completamente nuova, una lingua affatto privata non è più una lingua, perché nessuno (secondo Wittgenstein nemmeno colui che l’ha inventata) la può comprendere. Una lingua per definizione incomprensibile non è evidentemente una lingua.
Ecco allora che si apre uno spazio intermedio fra istituzione e vita, in cui collocare prassi vitali ma non private, e forme di potere statale sufficientemente elastiche da dialogare con forme di auto-organizzazione comunitarie che non richiedono leggi troppo stringenti e coercitive: «L’istituzione prevede sempre un terzo che garantisca un interesse generale, mediando il potenziale contrasto tra interessi particolari. In essa, tra l’uno e l’altro c’è sempre un diaframma impersonale che filtra l’immediatezza del faccia a faccia, impedendo che l’incontro a due possa degenerare in scontro violento» (ivi, p. 56). Il campo del comune, a partire dal caso paradigmatico della lingua, è il campo dove si incontrano comportamenti, pensieri ed emozioni che non sono propriamente “privati” ma nemmeno statali e pienamente giuridici. Si pensi proprio, ancora una volta, alla situazione presente: che cos’è la salute pubblica, se non appunto uno spazio comune che va difeso proprio perché non è di nessuno? In questo senso la terza delle ragioni per indossare la mascherina, quella per proteggere genericamente gli altri, è una scelta per il comune, né per lo Stato né per il singolo.
O si pensi ancora al tema dell’ambiente. Al di là delle normative di legge, qualcuno che nei suoi gesti quotidiani cerchi di condurre una vita non troppo distruttiva per l’ambiente non lo fa per sé (perché comunque molto difficilmente ne vedrà gli effetti positivi), ma per i suoi figli, o meglio ancora per i figli di qualcuno che nemmeno conosce, e che vive dall’altra parte del mondo. Un gesto del genere istituisce una comunità che in realtà non esiste, e tuttavia è un gesto che istituisce una comunità possibile, di cui fa parte tanto un pescatore delle Maldive che un contadino del Sahel. È un gesto creativo, e tuttavia non è affatto un gesto impolitico. Allo stesso tempo la politica a cui si richiama non è (o non è soltanto né prevalentemente) quella degli stati: è una politica più terra terra, comunitaria appunto, senza proprietari e quindi senza tribunali né polizia. Si tratta tuttavia di un gesto, su questo punto Esposito insiste molto, che deve resistere alla tentazione del diventare a sua volta istituzione troppo rigida:
Istituire vuol dire inaugurare un elemento prima inesistente. Da questo punto di vista la prassi istituente allude a un inizio che muta, anche radicalmente, il quadro precedente, immettendo in esso una novità. Ma, contemporaneamente, la novità istituita, più che un divenire, è uno “stato”, un’entità destinata a “stare”, resistendo alla dissoluzione. In questo senso, paradossalmente, quello istituente è un movimento che tende a negarsi, vale a dire a creare immobilità. Eleva, innalza, erige qualcosa che va tenuto in piedi, fermo sul proprio basamento. Da qui l’antinomia del concetto, che sembra metterlo in contrasto con sé stesso: l’esito del movimento istituente è la stabilità dell’istituzione. Piuttosto che divellere l’antica radice, la novità s’incardina in essa, estendendola e insieme rafforzandola. Da qui il carattere singolare della sua logica. Che tiene insieme movimento e stabilità, mutamento e permanenza, innovazione e conservazione. L’istituzione non nasce ex nihilo, ma sempre da qualcosa anch’essa a suo tempo istituita, contemporaneamente da preservare e innovare. Ma – ecco la domanda che continua a interpellare gli interpreti senza trovare una risposta convincente – come si può preservare una novità senza negarla? (ivi, pp. 68-69).
Per rispondere a questa domanda occorre, secondo Esposito, pensare ad una istituzione che non tema di ospitare al proprio interno la potenza, allo stesso tempo distruttiva e creativa, del “negativo”. Una istituzione “muore” quando espelle da sé ogni possibilità di conflitto interno, quando si chiude in una bolla immunitaria che corre sempre il rischio di innescare le terribili malattie autoimmuni, quelle in cui le difese del corpo si rivoltano contro il corpo stesso: «Mentre nelle società autoritarie il potere tende a neutralizzare il conflitto, in quelle democratiche è funzione di esso. Le istituzioni sono appunto i luoghi, le procedure, le prassi entro cui si rapportano potere e conflitto. Istituzione è ciò che garantisce al conflitto politico di continuare a svolgere il proprio ruolo attivo e regolativo all’interno della società» (ivi, p. 61).
Secondo Esposito la sfida che si apre dopo l’assalto a Capitol Hill è quella di ridare vita a istituzioni sclerotizzate e autoreferenziali, senza però abbandonarsi alle orde disordinate che sciamavano al suo interno, fra rivolta e scampagnata, fra voglia di linciaggio e giro turistico, fra rabbia e ottusa incredulità. È la sfida di quello che chiama un «pensiero istituente» che deve confrontarsi con una doppia esigenza: da un lato «solo istituzionalizzandosi i movimenti acquistano forza e durata», dall’altro «solo mobilitandosi le istituzioni possono ritrovare potenza creativa» (ivi, p. 163). In questo contesto, da ultimo, Esposito prende le distanze, almeno in parte, dal modo in cui si è diffuso il tema della biopolitica:
Mi pare che il compito della filosofia contemporanea, se ce n’è uno, sia proprio questo: non opporre, o sostituire, il paradigma istituente a quello biopolitico, ma integrarli in un modo produttivo per entrambi. Mai come oggi il cantiere biopolitico, aperto da Foucault alla metà degli anni Settanta, manifesta la propria capacità ermeneutica nell’interpretazione della fenomenologia contemporanea. Ma la categoria di biopolitica va sottoposta a un ripensamento che ne superi la divaricazione latente tra quello che ad alcuni appare un potere assoluto sulla vita e ad altri una vita libera da ogni potere. Il pensiero istituente intende ricomporre questa frattura, filosofica prima che politica (ivi, p. 155).
Roberto Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021.