Quello di Erich Mosse è un nome che oggi non attira più l’attenzione. Se chiedete a ChatGPT, vi dirà che era un medico e filantropo tedesco del XIX secolo, un affermato dermatologo nonché fondatore del prestigioso ospedale ebraico di Berlino. Non male. Peccato che si tratti di un equivoco, di uno scambio di persona. Non è questo l’Erich Mosse che ci interessa – ve l’ho detto che non attira più l’attenzione. Il nostro Mosse è vissuto circa un secolo dopo, anch’egli medico, ma scrittore invece che filantropo. Se l’intelligenza artificiale non si prende neanche la briga di rilevare l’ambiguità, di specificare che di Erich Mosse ce n’è stato più di uno, evidentemente è perché non ne vale la pena, no?
Eppure, questo medico-scrittore che ci parla dal dimenticatoio ebbe una vita forse persino più interessante di quella del suo omonimo. Una vita che, per ironia della sorte, potremmo definire da romanzo. Nato a Berlino nel 1891 da una famiglia appartenente alla grande borghesia ebraica, vantava parenti del calibro di Erwin Panofsky o del futuro Nobel per la chimica Konrad Bloch. Nel 1914 si laurea in Medicina a Berlino, giusto in tempo per studiare le nevrosi di guerra e trattare i pazienti colpiti da shell shock al fronte. Vent’anni dopo, sfugge ai nazisti spostandosi prima a Parigi poi a New York, dove si afferma come uno degli psichiatri più illustri di Manhattan, lo strizzacervelli da cui William Faulkner si faceva somministrare l’elettroshock.
Qualcuno sostiene che in quel salotto fossero passati occasionalmente anche Charlie Chaplin e Albert Einstein e che, di tanto in tanto, Mosse condividesse l’ora del tè con Thomas Mann. Da psichiatra pubblica poco, certo niente di memorabile; con lo pseudonimo di Peter Flamm, invece, firma quattro romanzi. Il quinto, cullato a lungo, rimarrà per sempre nel cassetto dopo che la bancarotta lo costringerà a trascorrere il tempo alla macchina da scrivere a redigere lettere di sussidio e richieste di prestiti.
Di questi quattro romanzi, Adelphi ha da poco tradotto Io?, il romanzo più famoso, quello d’esordio, che fece scalpore e assicurò a Mosse/Flamm il suo effimero momento di notorietà, coronato dal tipico pedigree da meteora: il passaparola nei caffè letterari, buone recensioni e indignazioni, qualche stroncatura subito riequilibrata da elogi, candidature a premi mai vinti, l’attesa per una consacrazione che non sarebbe arrivata.
Che lo si ammiri oppure no, Io? è un romanzo che sconvolge e confonde. Non perché sia particolarmente intricato, anzi. La prosa di Flamm è linearissima, di una chiarezza talvolta inesorabile. Ciò che colpisce, forse, è proprio la desolante linearità con cui l’autore ci somministra le sue elucubrazioni attorno alla domanda per eccellenza, il quesito dei quesiti, formulato all’osso, quasi sotto forma di esclamazione: non “cosa significa essere un Io?” o “cosa distingue l’Io dall’Altro” ma, ancor più direttamente e visceralmente, una domanda che sa di balbettio, di equivoco, di impaccio, e cioè, Io?!
Un titolo altrettanto valido sarebbe potuto essere Un morto che parla, perché la sostanza della trama, con il suo incipit che fa eco a La verità sul caso Valdemar di Poe, parte da un incidente, da qualcosa che non sarebbe dovuto accadere, e invece è accaduto: «Non io, signori giudici, un morto parla per bocca mia. Non sono io qui, non è mio questo braccio che si alza, non sono miei questi capelli ora bianchi, non è mio il crimine, non è mio il crimine» (Flamm 2024, p. 11).
Un fornaio disgraziato, unico sopravvissuto tra i cadaveri di Verdun al termine della Prima guerra mondiale, ruba il passaporto a un morto in trincea. Da quel momento, il suo nome, il suo destino, persino il suo corpo, non saranno più quelli di Wilhelm Bettuch, ma di Hans, Hans Stern, facoltoso medico chirurgo di Berlino, marito di Grete, amico-nemico del magistrato Sven Borges, amante di Bussy, proprietario del cane Nerone. Wilhelm entra clandestino nella vita di Hans come un piede in uno stivale rubato, tanto è facile calzare la vita di qualcun altro. Perché cos’è un nome, dopotutto, se non una forzatura, una cosa rigida con cui si cerca di tenere a freno la «vita che muta», la vita che in quanto «carne, intestino, cervello e anima» è sempre diversa? (ivi, p. 25)
Se la guerra ha il diritto di tramutare un essere umano in cenere e ossa, allora perché un uomo non può prendere possesso di un morto? Se si muore a mucchi e senza alcuna ragione, allora tutto è lecito. Dopotutto, si tratta di niente più che un collo, una schiena, una voce, di carne flebile che una bomba ridurrebbe a brandelli in un battito di ciglia. E però i conti non tornano. Wilhelm si trova ben presto di fronte a due problemi. Primo, che non è semplice essere Hans, che il medico è, per quanto ricco e istruito, pur sempre un “Io”, una matassa di guai e contraddizioni che tolgono il sonno. Hans è un nome altrettanto problematico di Wilhelm, un fardello infelice che la vita si deve portare dietro nonostante il corpo cambi giorno dopo giorno. Secondo, che questo fardello, per quanto vincolante, è anche poroso, perché Hans rimane pur sempre Wilhelm, ma Wilhelm, ora, è pur sempre Hans.
La cosa più difficile non sta nel tenere separate le due identità, ma nel tollerare la loro reciproca contraddizione, il fatto che l’una invada costantemente l’altra lasciandosi dietro il caos. E difatti, il Nostro non ha nemmeno il tempo di arrivare a Berlino, di abbracciare l’amata Grete mai vista prima, di odiare il deprecabile Borges, che si rende subito conto che la vittima dell’imbroglio, alla fine, è lui stesso e nessun altro.
ll passaporto, il nome dell’altro, il nome ha trascinato con sé l’altro, è misteriosamente congiunto a lui, indissolubili volto e nome, e ora io sono l’altro e devo vivere fino in fondo la sua morte, la sua vita, mentre lui giace laggiù sotto terra nel fango, e io mi infilo nella sua vita come in una cornice, ma so tutto, sto lì dietro come uno spettatore, eppure sono me stesso e mi guardo, io che sono l’altro eppure sempre io, un uomo dietro la sua immagine (ivi, p. 24).
In un’epoca in cui il romanzo psicologico era ormai diventato canone letterario, Flamm si comporta da teppista, dando vita a un racconto che si prende gioco di qualsiasi presunta profondità psichica. Una storia che, per citare Klossowski, ci costringe ad appurare che il più profondo, al massimo, è la pelle, il fragile involucro in balìa dello sguardo altrui, come del proprio.
Otto Rank diceva che i doppi servono al proposito inconscio di dissimulare il nostro suicidio. Proiettare il nostro alter ego fuori di noi è un buon escamotage per indirizzare il disprezzo nei confronti di sé altrove, come capitava spesso di dire ai grandi paranoici della letteratura analitica: non sono io, è un altro. Il problema è che, come ribatte Rank tentando di risolvere il dilemma freudiano del suicidio, a volte capita di incappare nell’errore, succede che credendo di uccidere il nostro doppio finiamo per uccidere direttamente noi stessi. In ambo i casi, qualcuno ci rimette la pelle e il gioco finisce. In Flamm invece questa risoluzione non avviene. In Io?, a morire sono sempre gli altri, e a farne le spese è sempre lo sventurato protagonista, che se ne resta lì, come «un fantasma che striscia tra le croci» (ivi, p. 118). Se è un romanzo psicologico che cercate, guardate altrove.
E difatti, ha ragione Manfred Löwenstein nella sua (preziosa) postfazione al libro: Io? è «un romanzo psicologico impermeabile a ogni psicologia» (ivi, p. 136). Il suo è un mistero contraddittorio senza soluzione univoca. Un puzzle di pezzi staccati che non combaciano tra loro, e la cui immagine complessiva si ricompone solo attraverso l’imposizione della trama, il filo di ferro che allaccia a forza l’inspiegabile. La psicologia, al contrario, non trova via d’uscita, rimane incagliata in un labirinto di specchi in cui i doppi si propagano senza sosta (Hans/Wilhelm, Grete/Bussy, Borges/Nerone e, perché no, Flamm/Mosse). Doppi che, a differenza di come ci ha abituato a pensare una certa psicoanalisi, non spiegano, ma semmai ingarbugliano, mescolano e sparpagliano i nostri giudizi a piacimento.
Nei suoi libri, per qualificare il carattere intrinsecamente contraddittorio del Sé, Slavoj Žižek ripropone spesso un simpatico aneddoto tratto dal film Casablanca (1942): per quale motivo Victor Laszlo (Paul Henreid), un uomo dal carattere stoico e inflessibile, ordina ogni volta un drink diverso? Perché la sua ostinazione a trecentosessanta gradi non si trasmette anche ai suoi gusti in fatto di alcolici (un po’ come James Bond e il suo iconico Martini shaken and not stirred)? Probabilmente perché, risponde il filosofo sloveno, sotto sotto, il Sé è proprio questo: non sintesi, ma accumulo di incoerenze, particolari accavallati, dettagli antitetici.
Al fondo di ciò che possiamo spiegare, interpretare, conciliare, permane un vuoto, un’assenza di significato che, per paradosso, si impone come la causa efficiente di qualsiasi altra forma di senso. Laddove il lettore si aspetta un trauma, un punto di rottura o anche solo una ferita da cui sgorgano tutti i malintesi e gli intoppi non c’è niente. Io? è questo: il romanzo in cui la psicologia cozza contro quello che Karl Abraham chiamava il nichilismo terapeutico (Solomon 2024, p. 368), contro il fatto che «non abbiamo la minima idea del perché un gruppo di individui segua una strada, e l’altro gruppo un’altra». Detto altrimenti, non abbiamo la minima idea di come ciascuno – noi stessi in primis – risponda alla più banale eppure decisiva delle domande, al singulto che ci coglie di sorpresa non appena ci accorgiamo di essere un nome, un corpo, una vita che muore: Io?
Riferimenti bibliografici
A. Solomon, Il demone di mezzogiorno. Depressione: la storia, la scienza, le cure, Mondadori, Milano 2024.
Peter Flamm, Io?, Adelphi, Milano 2024.