Opera “inconsumabile”, pubblicata nel 1996 in un’edizione di 1079 pagine con un totale di 388 note, Infinite Jest di David Foster Wallace (2016) racconta di un futuro distopico in cui le persone lottano con diverse forme di dipendenza, tra cui quella da un film (Infinite Jest, appunto), così seducente da far desiderare di continuare a guardarlo all’infinito, fino alla morte. Tra le vicende della famiglia di James O. Incandenza, regista visionario e fondatore della Enfield Tennis Academy, e quella dei residenti della vicina Ennet House, casa di recupero per tossicodipendenti, il romanzo procede per episodi frammentari, offrendo una riflessione quanto mai attuale sull’intrattenimento (il cinema, ma anche la pubblicità), la dipendenza da sostanze variamente psicotrope, e la resistenza che la malattia mentale offre alle forme anche più pervasive di controllo sociale.
La molteplicità di personaggi e la natura profondamente destrutturata delle vicende rende impossibile pensare ad una riduzione o rimediazione del romanzo, di cui infatti non è mai stata tentata una resa cinematografica. E anche questo evento non si propone come un adattamento teatrale, bensì come un “omaggio” in forma di rave, con tutto il portato antisistema che questa definizione aveva al suo apparire all’inizio degli anni ottanta. In un momento in cui il teatro si confronta con un pubblico con span attentivi sempre più limitati, e però educato alla dipendenza dalle maratone di serie televisive, la forma del rave pensata dalla fucina Fanny & Alexander (Marco Cavalcoli, Luigi De Angelis, e Chiara Lagani) insieme a Stefano Bartezzaghi prende a pre-testo la testualità polimorfica e sfuggente di Wallace per offrire un’esperienza di teatro immersivo che richiede e sollecita la presenza di uno spettatore attivo, sia in senso individuale che collettivo.
L’evento, svoltosi lo scorso 15 Giugno, fa parte della rassegna “Da vicino nessuno è normale”, che da venticinque anni propone teatro e performance nelle strutture e annesso parco dell’ex O.P. Paolo Pini di Milano, all’interno del progetto “Olinda”. Il titolo, va ricordato, cita Franco Basaglia, padre della legge 180 che nel 1978 decretò la chiusura degli ospedali psichiatrici: e una risonanza profonda si attiva nell’attraversare le strutture del Pini con un testo popolato di personaggi in diverse fasi di dipendenza e sofferenza psicologica – come Kate Gompert e Ken Erdedy, protagonisti di un toccante dialogo sulla depressione, o Hal Incandenza, ragazzo prodigio affetto da una patologia non ben definita per cui il pubblico riesce a capire quello che dice, mentre i personaggi intorno a lui percepiscono solo suoni incomprensibili e una gestualità isterica.
Alla folla variegata che costituisce il pubblico, l’assunto di Basaglia si svela con inusitata immediatezza, perché ci si guarda davvero da vicino: i patiti di Wallace con il voluminoso romanzo sotto al braccio insieme a chi ammette sottovoce di non averlo mai finito; drammaturghi e altre professionalità insieme a semplici appassionati; coppie che durante le scene più disturbanti si tengono per mano e anime solitarie che fendono la folla per trovare il punto d’osservazione migliore. Si comincia con un menu a tema (hamburger “disgustosamente al sangue” per pranzo, e poi maccheroni e “denso polpettone di carne” per cena) mentre prima Claudio Cirri e poi Chiara Lagani introducono l’esperienza che ci attende: al seguito di Cirri/Wallace dotato di trombetta da stadio, ci si muoverà negli spazi del parco per assistere a drammatizzazioni e brevi interventi sul romanzo. Alcune saranno sequenziali, altre contemporanee: non sarà possibile, ci viene anticipato, vederle tutte. Bisognerà necessariamente fare delle scelte, seguire alcuni personaggi e trascurarne altri, farsi trascinare da alcune linee narrative, abbandonarne altre. La frustrazione sarà, ad un certo punto, inevitabile; come pure la stanchezza, dato che per i più pervicaci ci aspettano non le annunciate dodici, bensì quattordici ore di immersione ininterrotta, in cammino, seduti per terra, o appoggiati ad una parete.
Dopo le prime scene, si comincia a notare l’assenza dei cellulari: pochi fanno qualche foto, quasi nessuno riprende, a parte pochi professionisti. Molti stringono tra le mani il taccuino con titolo in rilievo su copertina bianca fornito dalla produzione, che dopo un po’ si riempie di macchie, aloni, impronte di dita mentre l’interno si affolla di appunti, scarabocchi, foglietti con elenchi di associazioni terroristiche o dei film di Incandenza, distribuiti durante alcune scene. Spostandosi da un luogo all’altro si diventa, lentamente ma coscientemente, spettatori nel senso inteso da Marco Pustianaz (2015) nelle sue recenti riflessioni sulla “crepuscolarità” dell’identità spettatoriale, che sorge e tramonta con l’inizio e la fine della performance. Diventiamo tutti, singolarmente e comunitariamente, “corpo-soggetto archiviante”; e se non ci sarà possibile conservare il ricordo di tutto ciò che accade (a meno di non essere forniti della memoria eidetica di Hal), preserveremo la nostra relazione affettiva con esso, nata nel momento in cui abbiamo aperto il nostro corpo all’esperienza immersiva di questa performance.
Questa messa a disposizione del corpo si intreccia con la tecnica elaborata da Fanny & Alexander a partire da West e proseguita con Storia di un’amicizia: l’eterodirezione, ossia l’assegnazione in tempo reale di istruzioni ai performer mediante auricolari. Un dispositivo che, come ha spiegato Chiara Lagani, «è accoglienza estrema dell’altro e dell’impulso esterno» e insieme resa concreta dello «spazio di resistenza creativa che l’attore pone» (Di Tommaso 2011). Potente metafora di condizionamento sociale ma anche del corpo come luogo di resistenza, qui l’eterodirezione si espande come un contagio dai performer al pubblico: perché siamo tutte e tutti eterodirette/i, mentre seguiamo il richiamo della trombetta di Wallace o le istruzioni di Pat Montesian, dottore e manager della Ennet House, nella seduta di gruppo che si tiene nel TeatroLaCucina; o ancora mentre ci prepariamo a farci chiudere, da soli, in una delle celle frigorifere per assistere al frammento dell’“intrattenimento letale” – Infinite Jest, appunto – immaginato da Sara Fgaier.
Intorno all’una e quarantacinque i sopravvissuti, molti dei quali presenti da mezzogiorno, si ritrovano in una radura illuminata solo dalla luna piena e da qualche lucciola, mentre Don Gately (uno dei personaggi che ha accompagnato tutto il percorso, interpretato da un Marco Cavalcoli di rara intensità) scava per riesumare un cadavere, non sappiamo più bene di chi o perché; e quando alle sue spalle appare una figura bianca che potrebbe somigliare ad un essere umano, ci chiediamo se stiamo davvero vedendo quello che crediamo di vedere, o se la luce e la stanchezza non ci stiano giocando un brutto scherzo. Con questa visione lo spettatore in noi tramonta, lasciando però una traccia forte dello sguardo obliquo che ci si è aperto su un’umanità sofferente e resistente, quella che Foster Wallace, in Infinite Jest, chiama “l’oscurità che danza sull’orlo del profondo”.
Riferimenti bibliografici
L. Di Tommaso, Il dispositivo dell’eterodirezione. Intervista a Chiara Lagani e Francesca Mazza su West di Fanny & Alexander, Culture teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo, 2011.
D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Torino 2016.
M. Pustianaz, Crepuscoli dello spettatore. Attività, inattività e lavoro dello spettatore nell’economia performativa, in C. M. Laudando, a cura di, Reti performative. Letteratura, arte, teatro, nuovi media, Tangram, Trento 2015.
*In anteprima e in copertina una foto di Olinda.